Leonardo Sciascia, un mito che vive anche oltreoceano - QdS

Leonardo Sciascia, un mito che vive anche oltreoceano

Paola Giordano

Leonardo Sciascia, un mito che vive anche oltreoceano

venerdì 25 Novembre 2022

Il tradizionale “Colloquium” si è tenuto all’Istituto italiano di cultura di New York

Celebrare uno scrittore che, come Leonardo Sciascia, non ha mai rinunciato alla storia, ai fatti veri e alla possibilità di intervenire su di essi non è cosa facile. Farlo in occasione di un anniversario è ancora più complesso: il rischio di cadere nella trappola dei cliché è altissimo.

A trentatré anni dalla sua morte (era il 20 novembre del 1989), il QdS ha scelto di ricordare lo scrittore racalmutese partendo da un punto di vista forse insolito, curioso, ma sicuramente lontano. Anzi: letteralmente lontano. Oltreoceano.

Nell’ambito delle numerose manifestazioni ideate e promosse dal Comitato nazionale del Centenario Sciasciano, dall’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia e dalla rivista internazionale di studi sciasciani Todomodo per celebrare i cent’anni dalla nascita del Maestro racalmutese, il tradizionale Colloquium sciasciano – una due giorni dedicata da ben tredici edizioni per approfondire una tematica diversa ogni anno – si è infatti tenuto il 22 e il 23 settembre scorsi nella Grande Mela, al 686 di Park Avenue, sede dell’Istituto Italiano di Cultura di New Work, anch’esso promotore di quelle che sono state ribattezzate come “celebrazioni americane”.

Diretto e moderato da Valerio Cappozzo, professore dell’University of Mississippi e presidente dell’Associazione Amici di Sciascia, il Colloquium, intitolato “Leonardo Sciascia, mito americano e mito mediterraneo”, si è articolato in diverse sessioni, tavole rotonde, video-interviste, videoclip con studenti e discussioni sul singolare e appassionato rapporto di Leonardo Sciascia con la letteratura americana e con gli Stati Uniti.

“Gli scritti di Sciascia – ha esordito l’ambasciatrice d’Italia a Washington Mariangela Zappia, nei suoi saluti – sono profondamente radicati in Sicilia, la regione in cui è nato e la fonte primaria di ispirazione per molte delle sue opere. Eppure Sciascia è stato uno degli scrittori italiani del XX secolo con il più vasto pubblico internazionale e intergenerazionale”. Un pubblico che, come ha ricordato Valerio Cappozzo, non si è limitato allo “Sciascia siciliano che parla di mafia”, ma che ha apprezzato soprattutto la potenza della sua scrittura e dei messaggi in essa contenuti.

Dall’inedito scambio epistolare con Primo Levi, presentato da Domenico Scarpa (Centro Studi Primo Levi) e contenente i commenti alla bozza di lettera che lo scrittore torinese avrebbe inviato nel 1968 al Presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, per criticare la guerra in Vietnam all’idea – ricostruita da Valter Vecellio (direttore responsabile della rivista “Todomodo”) – che Sciascia ebbe dell’America che non gli apparve “come un mondo da visitare, ma da vivere attraverso i libri” o, ancora, al tema della complessità della traduzione delle opere sciasciane affrontata da Ann Goldstein (traduttrice), Joseph Farrell (University of Strathclyde) e James Marcus (New York University), i contributi sono stati tanti e di altissimo livello.

Hanno toccato punti di vista diversi ma hanno al contempo tutti tratto linfa da uno scrittore che, come ha ricordato Emma Bonino, presidente del Comitato Nazionale del Centenario Sciasciano, nei suoi saluto iniziali “non ha mai dimenticato di essere italiano ma non si è mai limitato ad essere ad essere italiano”.

La “sincera libertà intellettuale” di uno scrittore in perenne ricerca

“Un uomo di sincera libertà intellettuale”: pur sentendosi lontano dal mondo, dalla cultura, dallo sguardo dello scrittore racalmutese, Antonio Monda (New York University) ripercorre nel suo intervento il rapporto che lega Leonardo Sciascia al mondo del cinema delineando il profilo di un individuo “perennemente alla ricerca”. In politica come in letteratura.

Quello di Sciascia è del resto un “metagenere”: si serve del giallo, spiega Monda, non tanto per cercare chi sia il colpevole ma per affrontare temi più profondi, come il senso ultimo dell’esistenza.
Il meglio della sua produzione coincide – e forse non è un caso – con il momento del cosiddetto cinema impegnato di Rosi, Petri, Damiani, Amelio. Negli scritti sono presenti le caratteristiche ricercate da produttori e registi, ovvero dei grandi personaggi e un grande plot, ma convivono anche due anime, due facce della stessa medaglia: da un lato la sua “posizione ipergarantista”, dall’altro il “credere fino in fondo nell’applicazione del diritto”.

Questa contrapposizione è possibile in virtù della “sincera libertà intellettuale” che nel suo più celebre romanzo, Il giorno della civetta, riadattato cinematograficamente da Gianni Amelio, lo porta ad affidare la frase più bella, rimasta alla storia, a un capomafia: è Don Mariano infatti ad averci lasciato una delle riflessioni più illuminanti sull’umanità, quella cioè che divide quest’ultima in uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo (con rispetto parlando) e quaquaraquà.
“Un capovolgimento non da poco” che è frutto proprio di quella “sincera libertà intellettuale”, più volte ribadita dal relatore, di uno scrittore che “contraddisse e si contraddisse”.

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