Audizione Lucia Borsellino in Commissione Antimafia

“L’inferno in ufficio” vissuto da Borsellino, le verità emerse dall’audizione della figlia Lucia

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“L’inferno in ufficio” vissuto da Borsellino, le verità emerse dall’audizione della figlia Lucia

Roberto Greco  |
sabato 30 Settembre 2023

Parole dure da parte dell’avvocato Trizzino. Lucia Borsellino invoca il “diritto alla verità”. Omissioni e errori commessi nella lunga fase di indagine non hanno agevolato la Giustizia.

“Un passaggio fondamentale nella storia d’Italia”: esordisce così la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere, Chiara Colosimo, nella seduta dello scorso 27 settembre nell’aula al V° piano di Palazzo San Macuto, sede della Commissione che prevedeva l’audizione di Lucia Borsellino e di Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.

Sin dall’inizio, conscia della delicatezza e della complessità dell’argomento che sarebbe riecheggiato nell’aula, la presidente Colosimo anticipa che “qualora la presente audizione non dovesse concludersi in giornata, il suo seguito nonché gli interventi dei colleghi saranno oggetto di una seduta che ho intenzione di convocare la prossima settimana”.

I figli di Borsellino mai auditi in Commissione Antimafia

L’argomento dell’audizione è la strage di via d’Amelio, quella in cui persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina e l’unico sopravvissuto fu l’agente Antonio Vullo. Si tenga conto che, da quel tragico 19 luglio 1992, i figli del giudice Paolo Borsellino (Lucia, Manfredi e Fiammetta) non erano mai stati protagonisti di un’audizione in Commissione Antimafia e tantomeno il loro avvocato.

Si è trattato di un’audizione fiume, oltre due ore, all’interno della quale, più volte, è stato rimarcato di non aver mai sentito “un mea culpa” da parte del Csm in riferimento all’avvallo, da parte dei magistrati che si sono occupati delle indagini, alla testimonianza, rivelatasi falsa in quando viziata da pressioni e minacce, di Scarantino e che, come si legge nella sentenza del Borsellino IV, hanno dato luogo al “più grande depistaggio della storia giudiziaria Italiana”.

“Non sono venuti fuori del tutto – ha dichiarato Lucia Borsellino – atti e prove testimoniali che potessero fornire elementi, a nostro avviso indispensabili, per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e isolamento in cui ha vissuto fino all’ultimo giorno della sua vita perché il diritto alla verità non è una ossessione della famiglia Borsellino, o degli altri familiari delle vittime, ma un diritto che appartiene all’intera comunità. Pensiamo che sia doveroso consegnare alle giovani generazioni la narrazione fedele di ciò che è realmente accaduto in quella fase drammatica del nostro Paese oltre che della nostra famiglia”. 

Durissimo l’intervento dell’avvocato Trizzino

Durissimo l’intervento dell’avvocato Trizzino che ha dichiarato: “Il giudice Borsellino ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un Palazzo di Giustizia che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, un luogo in cui venne umiliato”. Ha poi sottolineato quanto dichiarato a suo tempo da Agnese Piraino, vedova del giudice perché troppe volte la frase è stata restituita dall’opinione pubblica monca di un passaggio fondamentale che ben capire quale fosse il contesto in cui Paolo Borsellino si era trovato quando, dopo il trasferimento da Trapani, approdò alla sede palermitana.

“Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia – legge testualmente Trizzino – La mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”. Proprio l’indicazione ”i miei colleghi” è stata oggetto di censura forse perché intesa come un “reato di lesa maestà” o una convenienza narrativa perché “se noi incrociamo questa dichiarazione con le testimonianze del 2009 – dice Trizzino facendo riferimento alle testimonianze dei magistrati Russo e Camassa – in cui si dice che Borsellino (poco meno di un mese prima della sua morte, ndr) definisce il suo ufficio un ‘nido di vipere‘ allora dobbiamo andare a cercare dentro la Procura di Palermo” elemento fondamentale al fine di “ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quella affermazione incredibile”.

Indagini su mafia e morte di Borsellino: “Serve coraggio nelle Istituzioni”

L’avvocato ha inoltre sottolineato che “tutte le componenti istituzionali devono avere il coraggio di guardare a questa tragedia con onestà, col senso di perdono da invocare da noi e dagli italiani onesti, che sono la maggior parte. Paolo Borsellino è andato incontro al suo sacrificio senza avere il pensiero al ‘tengo famiglia’, ha messo il Paese al di sopra di tutto. Quanti oggi hanno questo approccio? Noi lo abbiamo perché abbiamo perso tutto, non solo il congiunto ma anche la verità. E nonostante tutto abbiamo e avremo sempre il rispetto per le istituzioni ma è giunto il momento che attorno a Paolo Borsellino non ci siano più divisioni”. 

“La magistratura – ha proseguito Trizzino – deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia Repubblicana. Tutti dicono che Borsellino, dopo la morte di Falcone, sarebbe andato a fare il procuratore nazionale antimafia ma nessuno sa che il plenum del Csm tra il 15 e il 20 giugno del 1992 bloccò qualunque richiesta di riaprire i termini del concorso, disse che Borsellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto ad un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito. Il Csm quando c’erano di mezzo Falcone e Borsellino è stato sempre pronto. Non ho visto in questi anni la magistratura ragionare su come abbia in qualche modo cannibalizzato i suoi figli migliori, non ho mai sentito un ‘mea culpa’, ‘abbiamo sbagliato’, ‘cosa abbiamo combinato’, ‘non abbiamo capito niente’”.

Il legale dei figli di Borsellino ha inoltre ricordato che “già dal luglio 1992 esistevano audizioni di magistrati della Procura di Palermo in cui, vuoi per la vicinanza rispetto alla strage di via D’Amelio, vuoi perché in quella Procura c’era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nei confronti delle dinamiche messe in campo dal procuratore Pietro Giammanco che resero impossibile la vita a un giudice valoroso come Paolo Borsellino”. L’avvocato, inoltre, evidenzia una delle tante stranezze avvenute durante il lunghissimo iter processuale, nello specifico denuncia “il fatto gravissimo che il procuratore Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage” e che “la realtà dei fatti è che Borsellino l’inferno lo ha vissuto nel suo ufficio e questo gli italiani lo devono sapere”.

Nel corso del suo intervento, Trizzino ha inoltre dichiarato che “non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Totò Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione. Deve, su suggerimento di terzi, fermare i magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti”.

“Non dimenticate – ha detto ai componenti della Commissione – che doveva morire anche Antonio Di Pietro, quindi devono morire quei magistrati che hanno a che fare con inchieste che possono svelare il sistema, marcio, dei partiti”.

Il dossier mafia-appalti

Fabio Trizzino ha poi citato una serie di elementi del dossier “mafia-appalti” depositata dal Ros il 20 febbraio 1991 a seguito di uno spunto investigativo che gli fu dato da Giovanni Falcone che aveva capito che gli interessi di Cosa nostra erano usciti dalla Sicilia e che, con la complicità di parte dell’imprenditoria del nord, stava realizzando il suo progetto d’infida penetrazione nell’economia italiana con un ruolo principale. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la Procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici.

Il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, al momento titolari delle indagini, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, tre giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992. Che il “dossier mafia-appalti” sia una concausa della morte di Giovanni Falcone prima e di Paolo Borsellino, dopo 57 giorni, è anche scritto nella sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del procedimento Capaci si legge che “in Cosa Nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti”. L’avvocato Trizzino, ha riportato, oltre a questi, diversi elementi che si connetterebbero appunto con le stragi di Capaci e di via D’Amelio e ha aggiunto: “vedremo se la morte di Borsellino era veramente inevitabile”. 

Borsellino lavorava a inchieste “che potevano svelare il sistema marcio dei partiti”

“Non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca – dichiarato Trizzino – quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Totò Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione. Deve, su suggerimento di terzi, fermare i magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti. Non dimenticate che doveva morire anche Antonio Di Pietro, quindi devono morire quei magistrati che hanno a che fare con inchieste che possono svelare il sistema, marcio, dei partiti”.

Colosimo: “Dovremmo chiedere perdono”

“Credo che dovremmo chiedere perdono se non siamo riusciti in tutti questi anni a dare una risposta alle tante domande che fin qui ci avete posto, con sofferenza e amore. Abbiamo sentito il cuore batterci nei timpani. Vorrei che di questa commissione non si avesse mai a dire che non si è fatto quello che si doveva fare”.

Con queste parole la presidente della commissione Antimafia, Chiara Colosimo, ha commentato in chiusura le parole dell’avvocato Trizzino e di Lucia Borsellino durante l’audizione, annunciando, come indicato in apertura, che l’audizione continuerà.

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