“Mi spezzo, ma non mi spiego” - QdS

“Mi spezzo, ma non mi spiego”

Carlo Alberto Tregua

“Mi spezzo, ma non mi spiego”

mercoledì 20 Dicembre 2023

Ricordate il “divino” Giulio (Andreotti), che aveva un modo di comunicare tutto suo, secondo il quale nessuno doveva ben capire cosa volesse dire, di modo che poteva tranquillamente dare la propria interpretazione dei fatti a seconda di come tirava il vento. Dal che qualcuno malizioso lo identificò con la frase: “Mi spezzo, ma non mi spiego”.
Per altro, sono rimaste negli annali le sue famose battute. Ad esempio, quando gli dicevano che Craxi era una volpe, lui rispondeva: “Anche le volpi finiscono in pellicceria”.

Perché vi parliamo di questo gustoso episodio? Perché rileviamo che il modo di comunicare di coloro che intervengono in radio e televisioni o il modo di scrivere di tanti editorialisti è abbastanza opaco; non sempre si riesce a capire quale sia il senso della comunicazione, con la conseguenza che ognuno lo interpreta come vuole e chi parla o scrive può dare il significato che ritiene più opportuno al contenuto.
Insomma, una replica del modo di comunicare del “divino” Giulio, che non è certamente quello opportuno.

Il linguaggio, ecco cosa serve per comunicare, ma esso non è solamente verbale; è anche non verbale, cioè composto da gesti del corpo, espressione del viso, tonalità della voce, movimento degli occhi e così via.
Nelle due comunicazioni, verbale e non verbale, occorre che vi sia lo stesso significato, il che per esempio non accade quando qualcuno fa un’affermazione e contemporaneamente muove la testa negando, quindi autocontraddicendosi, almeno per quanto riguarda il linguaggio del corpo. Così accade nella nostra cultura, mentre in alcuni Paesi scuotere la testa a destra e a sinistra significa annuire.
Non parliamo di chi è addestrato a fare comunicati brevi perché i tempi televisivi sono stretti, di solito condensati in un minuto o due. Costoro sembrano replicanti, gente che ha imparato a memoria quelle frasi e poi le ripete senza capirle.

La comunicazione è diventata una sorta di brand, anche e soprattutto nei social ove bastano pochi segnali, ovvero una sorta di codici, per attirare come il miele le mosche e fare scatenare masse enormi di persone che danno il loro consenso, forse senza neanche capire l’oggetto dello stesso. Il che rende la vita più complicata in quanto meno comprensibile.
Non parliamo del linguaggio degli smartphone, ormai composto da segnali, emoji, gif ed altre forme che vorrebbero condensare la comunicazione.
Intendiamoci, non stiamo esprimendo una critica nei confronti di questo nuovo modo di comunicare perché ogni epoca ha il proprio ed ha il diritto di averlo. La questione è un’altra: comunicare con chiarezza i concetti, non le parole o le figure; esprimere quello che si intende veramente e quindi rivestire con le parole il proprio pensiero, mentre spesso le parole escono dalla bocca per darle fiato senza alcuna riflessione antecedente.

Non è facile quando si è davanti ad una telecamera o ad un microfono della radio parlare in maniera precisa e comunicare argomenti che hanno i piedi per camminare, però si può fare non tanto allenandosi, quanto studiando come farlo e leggendo molto perché spesso le frasi scritte esprimono pensieri normalmente comprensibili e lineari.

Ecco, il massimo che ognuno di noi potrebbe fare è parlare come se scrivesse, perché la scrittura, per essere efficace, deve essere sintetica e chiara. Non sempre chi scrive adotta questi requisiti. Spesso abbiamo letto paragrafi molto lunghi senza neanche un punto. Tuttavia, vi è chi scrive in maniera chiara con frasi brevi, ma concatenate, che esprimono un significato preciso.
Dunque, parlare come si scrive e per conseguenza scrivere come si parla, quello che molti definiscono: “Parlare come un libro aperto”.

Comunicare bene, in modo semplice, chiaro, per evitare equivoci da parte di chi ascolta, perché in questo modo ognuno può essere certo di avere detto quello che pensa, ovviamente dopo avere elaborato, riflettuto e atteso qualche secondo prima di dare fiato alla bocca.
Il linguaggio non è universale perché esistono migliaia di lingue e dialetti nel mondo. Consentitemi una considerazione: come sarebbe bello se si utilizzasse il linguaggio della musica, che è universale, per parlarsi in tutte le parti del mondo senza traduzioni.

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