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O come Orgoglio

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O come Orgoglio

Franco Gabrielli  |
giovedì 22 Giugno 2023

In realtà, come rimarca David Hume, l’orgoglio è una virt

di Franco Gabrielli
Filosofo

L’orgoglio, in diverse, multiformi letture, rischia sempre di presentarsi come un modo d’essere sospeso, un sentimento ambiguo, addirittura, e non è raro, una forma di vita autoreferenziale, testarda, superba. In realtà, come rimarca David Hume, l’orgoglio è una virtù. “Per non discutere sulle parole – scrive Hume – preciso che per orgoglio intendo quella piacevole impressione che nasce nella mente quando ci si sente soddisfatti di noi stessi per la nostra virtù, bellezza, ricchezza o potere”.

L’orgoglio, dunque, nasce da riconoscimento lucido, e per questo fiero, di capacità, qualità, talenti testimoniati e riconosciuti. Anche Dio ha praticato l’orgoglio:
Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. […]. Dio disse: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie2. E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona” (Genesi, 1, 1-12).

L’orgoglio dell’uomo non è forse simile all’orgoglio di Dio, contemplare la creazione, la propria creazione, e affermare che è cosa buona? L’orgoglio, nella sua definizione forse più stringente, è dare inizio, impulso fiducioso alla vita per potere esclamare con fierezza che si è operato in direzione della bellezza e del bene. Un fatto cruciale, soprattutto in un’epoca in cui fiducia ed entusiasmo sono immolati sull’altare della rinuncia costante, della restrizione, della castrazione connessa all’idolo del sacrificio, della metaforica piccola vita, poiché questo aggrada a certi meccanismi di sorveglianza e controllo, che, in cambio, ci elargiscono porzioni uniformi di godimento eterodiretto.

Coltivare il proprio io, con temperanza, coraggio, perseveranza, significa radicare una cultura dell’io aperto: la cultura di un io che si espone all’altro condividendo i propri progetti, la propria idea di mondo, con nobiltà di spirito, generosità di apertura, onestà di intenti. Questo è il presupposto della relazione, che non coincide con il generico “mettere al centro la persona”, come vogliono i dispensatori del perbenismo e delle buone intenzioni, politicamente corretti e ipocriti, semmai coincide con l’apertura all’altro nell’ordine del sentire. L’altro ci reclama all’incontro nel segno della passione, della vitalità, del dionisiaco, non vuole stanchezza di gesti, inerzia di posture, uniformità di idee.

L’incontro che avviene sulla base dell’orgoglio, del riconoscimento della nostra irripetibile vocazione come dono comunitario, richiede la capacità di stare all’altezza, di essere fedeli al nostro compito, al talento in cui si radica.

I versi di Emily Dickinson, in questo senso, sono davvero superbi:
Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.

L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.

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