Prostituzione a San Berillo, o si muore di fame o si muore di Covid - QdS

Prostituzione a San Berillo, o si muore di fame o si muore di Covid

Ivana Zimbone

Prostituzione a San Berillo, o si muore di fame o si muore di Covid

giovedì 25 Marzo 2021

Avere rapporti sessuali promiscui in piena pandemia è molto rischioso. Così la maggior parte dei clienti delle prostitute sembra essersi dileguata. Loro, invece, hanno dovuto rinunciare a tutelarsi.

La prostituzione è uno dei fenomeni più antichi al mondo. Ma in Italia è legata al paradosso di non rappresentare una condotta illegale e, per certi versi, nemmeno lecita.

Così i lavoratori e lavoratrici del sesso non possono pagare le tasse, né vedere tutelata la loro salute, ma rischiano persino di essere considerati “evasori fiscali“. O di morire di fame in caso di pandemia, qualora volessero rispettare tutte le misure anti contagio. A raccontarlo al QdS.it è Francesco Grasso, sex worker del quartiere San Berillo di Catania.

“Con il Covid noi prostitute siamo state disoccupate e qui a San Berillo, soprattutto durante il lockdown, non veniva nessuno. Però questo quartiere è anche abitato da ragazzi gambiani che con la chiusura del CARA di Mineo sono venuti qui – spiega Francesco Grasso -. Lo scorso marzo mi hanno chiamato e mi hanno detto di avere fame. Così ho cucinato del riso e della carne e glieli ho dati. È nata una rete di solidarietà di tutti i catanesi che mi conoscevano e di altre associazioni.

Il coronavirus, noi prostitute, lo viviamo con molta difficoltà. Perché per avere un rapporto sessuale bisogna essere a contatto. Quindi dobbiamo scegliere se ammalarci o morire di fame. Talvolta si sceglie di prostituirsi lo stesso, perché il lavoro è quello che ti consente di andare avanti”

PROSTITUZIONE, IL PARADOSSO DELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA

Prostituirsi in Italia non costituisce reato, ma la famosa legge
abolizionista “Merlin” del 1958 – che prende nome dalla socialista partigiana prima firmataria, Lina Merlin – punisce con la pena della reclusione da due a sei anni lo sfruttamento della prostituzione e il favoreggiamento della stessa.

La giurisprudenza punisce dunque chiunque condivida il guadagno con chi si prostituisce – anche se consenziente – o ne agevoli il “lavoro”, seppure offrendogli/le un semplice passaggio in macchina per recarsi sul luogo dell’appuntamento.

La legge impedisce anche le “case di tolleranza” – istituite da Camillo Benso di Cavour nel 1859 – e qualsiasi atto sessuale a pagamento, punendo severamente (con la reclusione fino a sei anni) chi sia proprietario o locatario di una “casa chiusa” o conceda tale condotta all’interno del proprio locale (si pensi ai night, ai locali di lap dance). Ma non punisce, ovviamente, i clienti di chi – se maggiorenne – si prostituisce liberamente.

SEX WORKERS, L’«OBBLIGO» DI EVASIONE FISCALE

La mancanza di una regolamentazione organica del fenomeno, comporta non solo dei rischi sanitari per chi si prostituisce e per i suoi clienti, ma anche la completa assenza di tutele economiche per il “lavoratore” o la “lavoratrice”.

Non essendo la prostituzione definita come un’attività lavorativa vera e propria, i sex workers non possono pagare le tasse e contribuire alle entrate dello Stato. Rischiano persino l’accertamento fiscale con redditometro da parte dell’Agenzia delle Entrate, pur vedendo negata l’opportunità di registrare i proventi dell’attività come reddito.

L’appello più volte reiterato nel tempo di chi esercita la prostituzione è quello di vedere riconosciuta la propria attività, di pagare le tasse come tutti i cittadini. Come avviene ad Amsterdam.

OLANDA, LA TUTELA DEI LAVORATORI DEL SESSO

In Olanda i lavoratori e le lavoratrici del sesso sono considerati alla stessa stregua dei liberi professionisti o degli impiegati. Questo significa che pagano le tasse e che, in caso di interruzione non volontaria dell’attività di lavoro dipendente, hanno diritto alla disoccupazione. Lo Stato si limita a non promuovere la condotta, così gli uffici di collocamento non possono pubblicare offerte di lavoro per questo settore né agire come intermediari per posti di lavoro nell’industria del sesso.

Chi esercita la prostituzione su strada può avere accesso a zone di riposo e ristoro, avere disponibilità di preservativi, cure mediche gratuite ma non obbligatorie (sono consentiti ben quattro check up l’anno, ma senza l’obbligatorietà per evitare discriminazioni). La prostituzione è autorizzata anche nei locali (come alcuni coffee shop) a seguito di una licenza comunale.

Una realtà certamente ben diversa da quella italiana che – di fatto – consiste nel non voler vedere ciò che c’è, nel rifiuto delle istituzioni di regolamentare un fenomeno che esiste da sempre, che non costituisce nemmeno un reato e che trova il suo spazio anche nelle “case chiuse” di Catania: non quelle regolamentate da Camillo Benso di Cavour, ma quelle blindate dall’amministrazione. Quelle dove nemmeno “gli ultimi” riescono a trovare dignitoso rifiugio, in attesa di un “piano di risanamento” di cui si parla da quasi 70 anni, da quando 30 mila sanberilloti furono “deportati” nel quartiere di San Leone per consentire all’amministrazione di “riqualificare” San Berillo, evidentemente senza limiti di tempo.

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