I semiconduttori sono il futuro dell’economia - QdS

I semiconduttori sono il futuro dell’economia

Carlo Alberto Tregua

I semiconduttori sono il futuro dell’economia

martedì 10 Ottobre 2023

Governo promuova investimenti

La Cina sta invadendo il mondo dell’economia in modo silenzioso, ma costante. Lo può fare perché le sue fabbriche non sono soggette al conto economico, nel rapporto fra costi e ricavi, per due evidenti ragioni. La prima riguarda il basso costo della manodopera, non onerato da tutte le forme di giusta assistenza che vi sono nelle democrazie occidentali ad economia avanzata. La seconda, più pesante, riguarda il sussidio che lo Stato effettua alle fabbriche in modo che esse possano determinare i prezzi dei loro prodotti molto più bassi di quelli di un conto economico attivo.

Cosicché, a livello internazionale, si verifica una concorrenza sleale, perché i prodotti cinesi, sia quelli finiti che i semilavorati, per le industrie occidentali hanno prezzi molto convenienti, appunto perché più bassi di quelli concorrenziali.
I cinesi sono forti soprattutto nella produzione dei semiconduttori, che costituiscono il petrolio del futuro.

Proprio per quanto precede, i governi delle democrazie occidentali dovrebbero fare molta più attenzione a quei gruppi industriali internazionali che stanno cercando di colmare il gap, prevedendo forti investimenti in fabbriche, appunto, di semiconduttori e prodotti finiti annessi.
Per esempio, la STMicroelectronics, insieme con l’americana GlobalFoundries, ha previsto un investimento di 7,5 miliardi per la costruzione di uno stabilimento a Crolles (Grenoble). Ha scelto quella località perché il governo francese ha invogliato il gruppo con un intervento finanziario di ben 2,9 miliardi.

La Intel ha trattato col governo Draghi un insediamento industriale per la produzione di chips in Italia, che originariamente prevedeva un’ammontare di circa 5 miliardi. Ma il governo Draghi non ha dato risposte tempestive e apprendiamo che tale gruppo internazionale ha previsto la costruzione di una fabbrica a Magdeburg, in Germania, con un investimento di ben 30 miliardi. Anche in questo caso c’è stato lo zampino del governo tedesco che si è impegnato a metterci 7,5 miliardi.
Persino Elon Musk ha previsto la fabbrica di batterie per auto elettriche a Berlino, con un sostanzioso intervento di quel governo.

Quanto precede indica chiaramente la rotta verso cui si sta muovendo l’economia mondiale. Nell’Unione europea, Francia e Germania hanno dato segnali concreti, ottenendo l’insediamento di fabbriche e decine o centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Non sentiamo dal Governo italiano analoghe inziative, mentre il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, è asfissiato da un numero impressionante di licenziamenti e di aziende che chiudono anziché investire ed espandersi. Non sappiamo se sia merito dei due governi citati e demerito di quello italiano, ma non possiamo che constatare ed esporre i fatti.

Nel nostro Paese si continua a cincischiare sul salario minimo, sulla povertà, sugli immigrati e su tante altre importanti questioni, ma si perde di vista una vera soluzione per risolverle tutte trasversalmente, cioè creare nuovo lavoro. Per fare questo è necessario formare cittadini e cittadine, anche immigrati, in modo da essere idonei allo stesso.

In questo quadro stona molto la continua propensione a mandare in pensione persone in età giovane, cioè i sessantenni, che hanno ancora vigore e capacità. È chiaro che chi possa godere di questo privilegio cerchi di approfittarne. Si tratta di un privilegio perché, come è noto, l’età pensionabile dovrebbe essere quella di anni 66 per le donne e 67 per gli uomini.

Dunque, non si dovrebbero mandare in pensione lavoratori e lavoratrici che hanno ancora energia perché è necessaria la forza lavoro, anche tenuto conto della diminuzione della popolazione nel rapporto nati/morti. Inoltre, sarebbe opportuno incentivare i giovani e le giovani ad entrare nel mondo del lavoro affinché possano apprendere da coloro che lasceranno loro il posto e portare le innovazioni necessarie.

Qualcuno obietterà: ci sono pur sempre tre milioni di disoccupati. È vero, ma si tratta di una cifra statistica perché al loro interno vi sono i cosiddetti Neet (chi non studia e non cerca lavoro) e tanti altri che non hanno voglia di lavorare, perché se l’avessero si preoccuperebbero di aggiornarsi professionalmente.
Lo scenario è chiaro, ognuno lo valuti come meglio ritiene.

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