Sicilia tra ritorno alle cave e bisogno di materie prime

Il ritorno delle cave in Sicilia, un passo indietro per la dipendenza dalle materie prime

Il ritorno delle cave in Sicilia, un passo indietro per la dipendenza dalle materie prime

Hermes Carbone  |
giovedì 28 Novembre 2024

Pesa l'aumento dei costi di importazione dall'estero

La rena rossa di “Rosso Malpelo”, il capolavoro di Giovanni Verga, oggi ha lasciato il posto all’antimonio, una delle materie prime presenti in quantità nel sottosuolo della Sicilia. E il futuro in direzione della sostenibilità, in realtà, si traduce in un ritorno indietro nel tempo con la riapertura delle cave. Negli ultimi 150 anni, l’Italia ha visto operativi circa 3.016 siti minerari, ma oggi solo 94 di essi possiedono una concessione attiva.

A chiederlo all’Italia è stata l’Unione Europea, che ha approvato a inizio maggio la European Critical Raw Materials Act per contrastare l’assenza di materie prime la cui egemonia, a livello mondiale, appartiene da anni alla Cina. Questo perché l’estrazione dal sottosuolo è sempre stata considerata come inquinante, costosa e dunque non sostenibile a livello finanziario e ambientale. Adesso a Bruxelles hanno però cambiato idea: senza quei materiali la transizione ecologica è meno sostenibile per via dell’aumento dei costi di importazione dall’estero.

Le conseguenze geopolitiche

Un passo indietro dovuto alla dipendenza da materie prime che l’Italia ha dovuto subire, nel corso degli ultimi anni, da Paesi impegnati in una contrapposizione geopolitica alla vision italiana. Basti pensare all’aumento di costi verificatosi sulle bollette dell’energia elettrica e del gas a causa delle sanzioni poste alla Russia e alla crisi mediorientale sullo sfondo che non lascia dormire sonni tranquilli con la posizione israeliana sempre più compromessa. E un atteso cambio di passo ancora pieno di incognite per via della rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti. 

Da qui la necessità anche dell’Italia di tornare al passato per riuscire a essere meno compromessi sul piano energetico rispetto al ruolo che, in Europa, vedono sul gradino più alto Francia e Germania. Per farlo, il governo non solo ha pensato al piano per il ritorno al nucleare (stavolta sostenibile, ndr), del quale abbiamo parlato nelle nostre inchieste sul QdS e che nelle ultime settimane è stato riconfermato da Giorgia Meloni. Ma anche un piano di estrazione e riapertura parziale delle miniere.

La linea europea

Come si legge sul sito della Commissione europea, “per raggiungere i suoi obiettivi climatici e digitali, l’approvvigionamento, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime critiche in Europa e la sicurezza delle catene di approvvigionamento sono le sfide future”.  Litio, cobalto e nichel sono utilizzati per produrre batterie; il gallio è utilizzato nei pannelli solari; il boro grezzo viene utilizzato nelle tecnologie eoliche; Il titanio e il tungsteno sono utilizzati nei settori spaziale e della difesa. Con la legge europea sulle materie prime, l’UE mira a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime critiche per l’industria europea e a ridurre significativamente la dipendenza dalle importazioni di singoli paesi. Tradotto: non possiamo più dipendere solo da Russia e Cina.

Nelle viscere della Sicilia, oltre alle falde acquifere scoperte al di sotto dei monti iblei da un recente studio pubblicato da geologi dell’INGV in collaborazione con l’Università di Roma Tre e l’Università di Malta, sono presenti anche alcuni di questi materiali altamente ricercati sul mercato. Per decenni l’Isola è stata il cuore pulsante dell’industria mineraria italiana, vantando il maggior numero di miniere attive del Paese. Nel 1870 erano 107; 259 nel 1900 e addirittura 406 nel 1920 in base ai numeri forniti dall’Ispra. Lo zolfo la risorsa principale a essere estratta. Ma anche salgemma, bitume, lignite.

Ritorno al passato

In misura minore, materiali come la marna, essenziale per il cemento, e minerali per la produzione di ceramiche. Il potenziamento dell’industria settentrionale portò a una lenta agonia delle cave siciliane. Nel 1960 le miniere attive erano scese a 311; dieci anni dopo erano addirittura scese a 71 arrivando infine a 55 nel 1980. Poi, la chiusura definitiva dei siti. Adesso, però, si punta a un passo indietro.

Oltre a promuovere l’adesione all’ERMA (European Raw Materials Alliance), il Ministero ha avviato a gennaio 2021 un Tavolo Tecnico Materie Prime Critiche, con l’obiettivo di rafforzare il coordinamento sul tema, potenziarne la progettualità in termini di sostenibilità degli approvvigionamenti e di circolarità, contribuire alla creazione delle condizioni normative, economiche e di mercato volte ad assicurare un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche. 

Una effettività del lavoro svolto che è stata ufficializzata con la firma arrivata nel settembre 2022. In quella occasione il Ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, e il Ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, hanno firmato il decreto interministeriale Mise-Mite che formalizza il tavolo tecnico “Materie Prime Critiche”.

Il DL Materie prime critiche

Per il passaggio successivo è stato necessario attendere quasi due anni. Il 20 giugno scorso, in Consiglio dei Ministri è stato approvato il decreto per adeguare la normativa sul settore minerario al regolamento Ue sulle nuove procedure semplificate. Tutto inserito all’interno del “DL Materie prime critiche”, con l’obiettivo di “adeguare la normativa nazionale sul settore minerario agli obiettivi e standard europei previsti dal regolamento Critical Raw Materials Act, in funzione delle transizioni digitale e green”, ha spiegato il ministero.

Il testo prevede che spetti allo Stato il rilascio dei titoli abilitativi o autorizzatori. Il MASE è l’amministrazione competente per ogni titolo relativo all’estrazione e alle autorizzazioni al riciclo di materie prime critiche strategiche: le tempistiche per la durata della procedura non possono superare rispettivamente i 18 e 10 mesi. Al MIMIT compete invece la procedura autorizzativa relativa alla trasformazione di materie prime critiche strategiche, per una durata massima di dieci mesi.

Il provvedimento introduce anche un nuovo sistema di “royalties” per le concessioni minerarie di progetti strategici, che saranno corrisposte annualmente in favore dello Stato e della Regione interessata per progetti su terraferma. Il DL prevede inoltre l’istituzione, presso il Ministero delle imprese e del made in Italy, del Comitato tecnico permanente per le materie prime critiche e strategiche, al quale è affidato il monitoraggio delle catene di approvvigionamento, oltre alla predisposizione di un Piano Nazionale delle materie prime critiche.

Da qui la possibilità di tornare all’estrazione anche in Sicilia passando prima dal Programma di esplorazione nazionale delle materie prime critiche, che dovrà essere promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) entro il 24 maggio 2025 e sottoposto a riesame quinquennale come previsto dal Critical Raw Materials Act.

A che punto siamo

Ma a che punto siamo oggi? Mancano ancora le infrastrutture e le risorse necessarie per rendere autonoma l’industria nazionale e i tempi per il ripristino non sembrano dei più rapidi. Anche perché c’è bisogno di recuperare decenni di ritardo su un settore che è stato cannibalizzato dalla Cina, se pensiamo ai piani di estrazione e investimento in Africa, Australia e Sudamerica.

Secondo le stime effettuate in uno studio condotto da Teha-Iren, le materie prime critiche influenzano la produzione industriale italiana per un valore di circa 690 miliardi di euro. Circa il 32% del Pil italiano è legato allo sviluppo e all’accessibilità di queste risorse, che sono cruciali non solo per la competitività industriale, ma anche per la sicurezza nazionale, come sottolineato dal presidente di Iren, Luca Del Fabro.

Nel corso di quell’incontro, tenutosi a inizio mese a Roma, è intervenuto anche Alberto Castronovo, Responsabile Internazionalizzazione del MIMIT: “Il nostro Ministero, insieme al Mase, sta lavorando per cercare di dare delle risposte alle domande che oggi ci stiamo ponendo. La strategicità è chiara, i numeri sono dirompenti, quindi ci stiamo attivando, stiamo lavorando da due anni su tre linee di attività: una è la strategia nazionale, poi c’è il piano normativo, quindi la legge sulle materie prime critiche, che abbiamo emanato quest’anno. La terza è il fondo strategico per il Made in Italy”.  

Il divario

Una competitività che sul mercato non esiste, come detto: basti pensare che se l’UE ha stanziato circa 2,7 miliardi di euro nel settore, nello stesso arco temporale la Cina ne ha investiti oltre 14,7 miliardi. Divario che, per quanto già esistente, potrà solo amplificarsi in prospettiva futura se si considera che proprio l’UE importa circa il 56% delle materie prime critiche necessarie dalla Cina.

Secondo dati Ispra risalenti allo scorso luglio, l’Italia estrae solo 2 delle 17 materie prime critiche presenti nel sottosuolo: feldspato e fluorite. Materiali che però non rispondono alle carenze nei settori tecnologici ed energetici. Per questi ultimi, solo nel 2022, l’Italia ha dovuto importare gallio e indio per un valore di 14,5 miliardi di euro (robotica) e 1,4 miliardi (semiconduttori), oltre a 13 miliardi di euro di tungsteno per il settore aerospaziale.

Di questi materiali, non è ancora chiaro quanti potrebbero trovarsi nel sottosuolo siciliano. Prima, infatti, sarà necessario procedere con una mappatura generale per comprendere anche quali siti potranno davvero rivedere la luce a distanza di decenni. Tungsteno, molibdeno e antimonio sono solo alcuni dei materiali che potrebbero essere presenti in quantità e che permetterebbero all’Italia di risparmiare decine di miliardi di euro dall’importazione.

Il Critical Raw Material Act dell’Unione europea ha stabilito vari obiettivi da raggiungere: il 10% di estrazione di materie prime strategiche; il riciclo del 25%; la realizzazione di impianti capaci di trattare almeno il 40% del fabbisogno europeo. Stando solo sull’obiettivo di riciclo dei materiali del 25% entro il 2030, si tratta di una percentuale che appare non solo ambiziosa quanto al momento irrealistica per il Paese. 

Nell’attuale sistema di gestione di rifiuti Raee, circa la metà dei prodotti sparisce dai radar per smaltimento non conforme o compravendite illegali. Per una perdita economica che, nello spreco di risorse, pesa per una stima di 10 miliardi di euro.

Secondo il ministro dello Sviluppo economico e del Made in Italy Adolfo Urso, l’Italia avrebbe nelle proprie viscere almeno “16 delle 34 materie prime critiche indicate dall’UE”.  Nel settembre 2023 il ministro Urso aveva parlato addirittura di riattivare le miniere siciliane entro la fine di quell’anno. A oggi, sulla road map tracciata, non è invece ancora presente una data ufficiale di riapertura. Anche se il futuro lascia presagire un reale ritorno al passato.

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