Smart working, quando il lavoro può diventare "malattia" - QdS

Smart working, quando il lavoro può diventare “malattia”

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Smart working, quando il lavoro può diventare “malattia”

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domenica 03 Gennaio 2021

L'eccessivo tempo dedicato al lavoro, la reperibilità senza limiti, l'abuso di caffeina e gli sbalzi d'umore che ne conseguono possono trasformarsi in patologia: la Sindrome da Workaholism.

L’arrivo inaspettato e repentino del Coronavirus ha portato ciascuno di noi a definire nuove routine e nuovi assetti nella propria vita quotidiana, e l’organizzazione del lavoro è uno dei settori che più di tutti ha risentito dei nuovi cambiamenti.

Sebbene una buona parte dei settori sia riuscita a organizzarsi con varie forme di lavoro a distanza, è anche vero che molte attività considerate “periferiche” nel mercato del lavoro hanno subito gravi perdite dal punto di vista economico. Ci sono stati molti licenziamenti e mancati rinnovi dei contratti a termine, mentre molti lavoratori hanno dovuto utilizzare ferie e congedi per ammortizzare il periodo di pausa lavorativa. Sembra inoltre che il 16% dei lavoratori siano occupati in settori che sono a rischio chiusura.

I lavoratori autonomi sono stati i più penalizzati dall’epidemia, in particolare chi lavora nel settore dello spettacolo, della cultura, del turismo e dello sport.

Smart working, il labile confine tra lavoro e vita privata

Coloro che invece sono riusciti a riadattare il proprio lavoro alle nuove disposizioni, attraverso forme di smart working, hanno comunque vissuto una serie di problematiche legate alla salute, alla privacy e alla gestione dei propri ritmi quotidiani.

Sebbene il lavoro da casa abbia portato numerosi vantaggi, come la riduzione dei tempi e dei costi del pendolarismo, la riduzione delle assenze, il maggiore rispetto delle scadenze, l’aumento dell’autonomia lavorativa, la riduzione dei costi aziendali, una maggiore flessibilità di orari e di spazi, non mancano gli aspetti negativi legati alla nuova condizione.

È proprio la maggiore flessibilità di orari che ha portato a delle conseguenze negative sulla vita delle persone: stare a casa anche per lavoro ha favorito una condizione di connessione perenne. In molti casi è risultato difficile riuscire a fare una netta distinzione fra le ore dedicate al lavoro e quelle per il tempo libero, i confini fra la vita personale e quella lavorativa si sono assottigliati. Alcune analisi statistiche hanno rilevato come questo nuovo assetto lavorativo tenda a diminuire lo spazio fisico e psicologico tra vita privata e vita lavorativa.

Tra gli effetti negativi di questa situazione vi è l’aumento dello stress lavoro-correlato e delle patologie a esso connesse. Alcune interviste effettuate a campioni di lavoratori hanno evidenziato come molti di questi abbiano lavorato almeno un’ora in più al giorno; abbiano iniziato le giornate in anticipo per terminarle più tardi, andando oltre le canoniche 8 ore; si siano sentiti spinti a rispondere più rapidamente e a essere disponibili online più a lungo del normale.

La testimonianza di una smart worker

Maria Giovanna Ginni, psicologa del Pronto Soccorso Psicologico “Roma Est”, riporta le parole di una sua paziente, F., una donna impiegata in una nota azienda di servizi professionali con capacità avanzate in campo digitale, che riferisce di vivere un periodo di grande stanchezza, ansia e stress:

“Con il passaggio allo smartworking la mia vita è completamente cambiata. È vero, questo è sempre stato un lavoro che mi ha tenuta impegnata tutto il giorno, ma adesso l’orario di lavoro si è notevolmente dilatato. Accendo il computer alle 8 del mattino e lo spengo, se tutto va bene, alle 20. Spesso la pausa pranzo dura 15 minuti e ci sono giorni in cui mi manca il tempo per andare a fare la spesa. Inoltre un giorno ho chiesto un permesso per un pomeriggio, a causa di una visita medica, ma il mio cellulare non ha mai smesso di squillare. Erano i colleghi, era il capo, erano persone che continuavano a chiedere la mia disponibilità nonostante avessi dato preavviso della mia assenza. Mi sono quasi sentita in colpa per aver chiesto del tempo per la mia salute…”.

La Sindrome da Workaholism

Questo senso di colpa e altri sentimenti di ansia e stress per il proprio lavoro, insieme alla difficoltà di staccare la spina a fine giornata, possono essere segnali di rischio di sviluppo della Sindrome da Workaholism.

Il termine “Workaholism” deriva dall’unione di due parole inglesi: “work” (lavoro) e “alcoholism” (alcolismo); esso si riferisce a persone la cui necessità di lavoro è diventata così forte che può determinare un pericolo per la loro salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali ed il funzionamento sociale. Nonostante la sindrome venga definita anche “dipendenza da lavoro”, essa si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali perché non si riferisce, come per l’uso di sostanze, al ricorso a un elemento esterno per l’ottenimento diretto di una gratificazione esterna, bensì a un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un servizio, per il quale si prevede una remunerazione.

I sintomi più ricorrenti del Workaholism sono:

eccessivo tempo dedicato in maniera volontaria e consapevole al lavoro, non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
-impoverimento emotivo, sbalzi d’umore e facile irritabilità;
-sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
-abuso di sostanze stimolanti come la caffeina.

È interessante notare come, al di là delle differenze individuali che contribuiscono a definire un identikit di lavoratore workaholic, ci sono anche aspetti culturali.

La “società della rete”, un rischio per molti lavoratori

Attualmente viviamo nella “società della rete”, che ha costruito la cultura della connessione, in cui il lavoro può seguire la risorsa umana dappertutto. La tecnologia diventa il mezzo che permette di essere sempre, virtualmente, in ufficio. Recentemente si osserva che la tecnologia ha reso il fenomeno del Workaholism sempre più diffuso e questo accade anche perché culturalmente essere “occupati” è una sorta di distintivo d’onore.

In una prospettiva simile diventa importante promuovere e monitorare il benessere psicologico del lavoratore facendo attenzione alle sue esigenze primarie.

Esistono strategie utili a favorire il benessere psicologico di chi lavora attraverso un’adeguata distribuzione del carico lavorativo per ciascun individuo, la gestione dello stress e delle emozioni lavoro-correlate, favorendo le collaborazioni di gruppo, monitorando le reazioni correlate al disagio, cercando di identificare i segni di malessere, sin dalla loro insorgenza.

È importante favorire una buona comunicazione orizzontale e verticale, tra colleghi e tra impiegati e superiori; è inoltre importante far comprendere al singolo individuo che può contare sul sostegno e l’aiuto di cui ha bisogno e ogni volta che ne sente la necessità.

Il Pronto Soccorso Psicologico a sostegno dei lavoratori

“L’attuale fase di emergenza da pandemia richiede una attenzione particolare al benessere psicologico del lavoratore”, conferma Gianni Lanari, psicoterapeuta responsabile del Pronto Soccorso Psicologico “Roma Est”.

Il Pronto Soccorso Psicologico “Roma Est” offre supporto psicologico in 20 lingue, anche per promuovere il benessere psicologico del lavoratore.

I 250 psicologi della rete del pronto soccorso psicologico sono presenti in tutte le regioni italiane e in 17 paesi esteri ( Regno Unito, Hong Kong, Messico, Russia, Argentina, Grecia, Kenya, Ghana, Brasile, Portogallo, Serbia, Romania, Giordania, Azerbaijan, India, Spagna, Svizzera).

Per contattare il servizio telefonare al n. 06 22796355 o al n. 349 1874670, o collegarsi al sito www.pronto-soccorso-psicologico-roma.it.

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