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Z come Zampillio (della vita)

redazione

Z come Zampillio (della vita)

Fabio Gabrielli  |
giovedì 28 Marzo 2024

Non decidiamo noi come e dove nascere ma possiamo decidere cosa farne di quel dove e di quel come

Da zampillare, di etimo incerto, lo zampillio indica una continuativa fuoriuscita, un continuativo getto sottile, di acqua o di altro liquido, che fuoriesce da una apertura angusta e, dopo essersi innalzato, si incurva e cade in basso.

Lo zampillio della vita, la fioritura della vita, consiste proprio in questa dinamica fisica, in questo gesto dei liquidi che si aprono alla terra liberandosi con una spinta, uno sforzo, una tensione dagli stretti argini di un’apertura.

In altri termini, l’umano gettato in questo mondo senza deciderlo o sceglierlo, è chiamato, come la definisce il filosofo Silvano Petrosino, a una “seconda nascita”, cioè a dare impulso, progetto, dilatazione a una gettatezza che non è dipesa da lui.

Insomma, non decidiamo noi come e dove nascere, non dipende da noi l’impulso iniziale, il getto ontologico, ma possiamo decidere cosa farne di quel dove e di quel come. L’umano non si limita solo a una “seconda nascita”, semmai a una pluralità di nascite ogni volta che nomina il mondo, che inaugura la vita, che la fa zampillare sulla base della propria vocazione, del proprio stile, della propria forma.

Con i versi di Pablo Neruda:
“Nascere non basta.
È per rinascere che siamo nati.
Ogni giorno”.

Tuttavia ogni nascita, ogni rinascita, è sempre esposizione di una fragilità, di una strutturale incertezza d’essere.

María Zambrano ha saputo esprimere questa evidenza della condizione umana in modo splendido: “Siccome si nacque nudi, non si può rinascere senza nudità, senza spogliarsi o venire spogliati del tutto ciò che si ha indosso, senza rimanere senza baldacchino, e perfino senza tetto, senza sentire la vita intera come non la si è potuta sentire allorché si nacque la prima volta; senza protezione, senza appoggio, senza punto di riferimento”.

Proprio a partire dall’accecante evidenza della nostra fragilità, quindi della nostra non sovranità, della nostra strutturale dipendenza dagli altri, si può organizzare quella co-individualità, quell’intersoggettività che fa degli umani un colloquio e non un semplice linguaggio informativo. La vita può zampillare solo dove c’è colloquio, dove lo spirito identitario si fa narrazione comune.

Non a caso, è stato creato un suggestivo neologismo, diventità, che, rispetto alla staticità dogmatica e gerarchica dell’identità, rimarca come siamo co-individui, come la nostra biografia sia intrecciata a una moltitudine di biografie, come le relazioni interindividuali ci plasmino, ci trasformino, facciano di noi dei nomadi dell’esistenza, degli animali aperti al mondo. Catherine Malabou, una delle voci più originali del panorama filosofico contemporaneo, parla di plasticità delle forme. Ogni forma che assumono i viventi, potremmo dire ogni zampillio della vita, è destinata a una progressiva configurazione sulla base di assemblaggi, inglobamenti, modificazioni, adattamenti nella co-esistenza.

Si tratta di fare della nostra singolarità, della nostra vocazione, della nostra forma, del nostro stile un’apertura creativa sul mondo, nel segno di quell’incessante trasformazione della vita che specifica l’umana esperienza.

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