La malinconia eoliana nella Lipari d’inverno - QdS

La malinconia eoliana nella Lipari d’inverno

Salvatore Santagati

La malinconia eoliana nella Lipari d’inverno

mercoledì 17 Aprile 2019

Scrivere di Lipari d’inverno mi ha profondamente scosso. L’Isola cambia volto, in questa stagione, e per narrarvela avrò bisogno di due puntate.

Arrivai in gennaio su una vecchia, grande nave con a bordo poche persone e un’atmosfera cristallizzata nel tempo. Anche in pieno inverno sul mare delle Eolie c’è una bellissima luce e l’acqua è color smeraldo. La giornata era ventosa, con nuvole bianche a viaggiare lentamente, sotto un gelido cielo azzurro. Su una rugginosa piattaforma di metallo, attendeva l’arrivo dell’imbarcazione un folto gruppo di persone.

Sul molo c’era una motoape carica di corone di fiori e si udiva il mormorare di una donna, vestita di nero, sorretta dai familiari. Dalla grande bocca del traghetto uscì l’auto di un’agenzia di onoranze funebri, color grigio scuro. Si avviò lentamente seguita da una piccola folla. Sulle barche dondolanti, i pescatori, si tolsero i cappelli. Nell’aria, solo le grida dei gabbiani.

La semplice stanza bianca, dove avrei alloggiato per due mesi, si trovava proprio lì davanti al porto. Entrai, aprendo le finestre e dal balcone osservai il mare sentendone il fiato, il profumo e tutta l’irrequietezza invernale.

Marina Lunga era trascurata, abbandonata: la spiaggia piena di canne spezzate, plastica e rifiuti. I marciapiedi erano sporchi, rovinati e, sul lungomare, le antiche case eoliane sembravano sul punto di crollare. Alcune erano già dirupate e tra le macerie fuggivano topi e piccioni. Una donna portava da mangiare a decine e decine di piccioni che le svolazzano sopra, in una nube di piume. In un’aiuola, tra le erbacce, una piccola barca, colorata.

Porto e pontile apparivano arrugginiti, trascurati, cadenti. Macchiati di guano, ridotti a un pisciatoio per anziani. Dalla barca un pescatore, vedendomi curiosare, mi disse: “In maggio ci cacceranno tutti via. Arriveranno i turisti e sarà la nostra rovina”.

Il mare eoliano, in gennaio, è una meraviglia: mai lo stesso, ora irrequieto, ora arrabbiato, ora tranquillo. E i colori riflettono gli umori: verdastro, azzurro, azzurro profondo, grigio argentato, turchese. Con infinite sfumature.

Una mattina mi svegliai con le acque che ribollivano, color verde-rabbia. Facevano star male. E tra le onde notai un grande albero d’ulivo, con le radici ancora imbrattate di terra, tormentato prima di venir inghiottito nell’abisso.

Molti degli abitanti questa bellezza, a volte struggente, non la notavano affatto. Anzi, le condizioni del mare diventavano motivo di ansia e malessere. Sembra che il turismo di massa li abbia snaturati, i liparoti. Molti preferirebbero vivere nei casermoni delle periferie delle grandi città: Milano, Torino.

Forse per questo l’isola è imbruttita da costruzioni abusive. Qui quasi tutti sembrano fare i muratori e sono pochi i pescatori rimasti. Lipari non educa alla bellezza, anzi domina la selvaggia cultura della distruzione. Non si sente né calore umano, né solidarietà. C’è freddezza. Isolamento. Follia.

Per settimane mi avventurai sulle alture, tra panorami stupendi, sulla costa e per le campagne, dove si scorgono spesso barche, come trascinate lì da uno tsunami. Ricordo che una mattina accanto a una di esse scoprii un meraviglioso mandorlo in fiore sotto un bellissimo cielo azzurro. Nella Lipari d’inverno vieni assalito da una commovente bellezza, spesso tenebrosa, ma anche da un’inquietudine che scuote l’anima. Forse anche per questo nel dopoguerra le Eolie si svuotarono per una migrazione di massa in Australia. Partirono giovani e quelli che riuscirono a tornare, lo fecero da vecchi. “Meglio restare nella propria terra”, mi disse uno, ricordando come i loro padri avessero saputo coltivare Lipari fino a renderla un giardino lussureggiante. Ma ora, nel brutto supermercato non si trova neanche una lattuga cresciuta in questa terra ricca. Tutto viene da fuori, persino arance e limoni. Non c’è un mercato del pesce. Nulla.

Lipari, d’inverno, è un deserto gastronomico. Non sembra essere in Italia.

Sul Corso – più curato del porto, i vicoletti circostanti puliti e abbelliti da piante – anche nelle tante belle giornate ci si imbatte in uomini incappottati, incappucciati, avvolti in grandi sciarpe scure. Spenti.

Camminano su e giù guardando spesso l’orologio, ma l’ora di pranzo è ancora lontana. In negozi semibui s’intravedono i proprietari assorti nella loro malinconica disperazione. L’estate sembra essere irraggiungibile.

Un pomeriggio, passando davanti alla chiesa, mi imbattei nella banda musicale del paese, con giacche e berretti color vermiglio. Un altro funerale si era appena concluso e i musicisti presero a seguire il feretro suonando “Lacrime”, esageratamente straziante visto che il morto aveva passato i 92 anni. Un’atmosfera simile l’avevo vissuta in Messico, che, come la Sicilia, ha sentimenti spagnoleschi riguardo il dolore e la morte.

La principale occupazione di molti liparoti, in inverno, sembra essere quella di cercare sui muri gli i ultimi annunci funebri: Angelina, 84 anni, Bartolo, 89, Assuntina, 116 anni.

Morire, qui – almeno in inverno – ti regala quel quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol.

(continua)

Un commento

  1. Nadeem ha detto:

    Sono felice di vedere che stai continuando a trascrivere poeticamente anche i tuoi viaggi, adoro leggere i conti!

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