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Aggiungi un posto a tavola. Sicilia, lo spreco è servito

Angela Michela Rabiolo

Aggiungi un posto a tavola. Sicilia, lo spreco è servito

venerdì 09 Novembre 2012

Secondo la Fao solo in Italia nel 2010 bruciati oltre 11 miliardi di euro in prodotti alimentari. Ogni anno 95 kg pro capite di cibo buttato, per lo più tra le mura domestiche

PALERMO – Sempre più spesso tutti noi commettiamo un peccato, uno di quelli sociali che però è di proporzioni e significati tali che se esistesse veramente il dio vendicatore del vecchio testamento non c’è dubbio che manderebbe una di quelle belle piaghe bibliche dal sapore egiziano.
Anche il cibo è sacrificato sull’altare dell’apparenza. La Fao stima che solo in Italia, nel 2010, si sono bruciati oltre 11 miliardi di euro in prodotti alimentari ancora perfettamente consumabili. Nel mondo quindi, un terzo del cibo prodotto per il consumo umano è perduto o sprecato; tale quantità ammonta a circa 1,3 miliardi di tonnellate all’anno.
Il confronto tra Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo è impietoso: si stima che la quantità pro capite di cibo sprecato da parte dei consumatori in Europa e Nord America sia di 95-115 kg/anno, mentre in Africa sub sahariana ed Est/Sud Est asiatico sia di soli 6-11 kg/anno. Una sproporzione che costringe tutti a una seria riflessione sulle proprie abitudini alimentari. Secondo i dati disponibili è possibile fare una stima del cibo sprecato in Sicilia. Tenendo presente il valore di 95 kg di spreco pro capite e moltiplicandolo per il numero dei siciliani-circa 5 milioni- si ottiene una cifra stimata di circa 475 milioni di kg/anno buttati via.
Nei Paesi meno ricchi oltre il 40% dello spreco si verifica a livello di post-raccolta e lavorazione, mentre nei paesi industrializzati oltre il 40% dello spreco si verifica a livello della grande distribuzione e domestico. Ormai si sa che anche l’occhio vuole la sua parte e seguendo questo mantra qualsiasi prodotto commestibile che presenta delle imperfezioni viene scartato dagli scaffali del supermercato. Meno frequente il caso di acquisto di enormi partite di cibo da parte delle catene di distribuzione che poi devono essere smaltite perché non sono stato vendute a causa di un surplus di quel particolare prodotto.
 
L’aberrazione di un sistema alimentare che preferisce l’occhio allo stomaco sta nel rinunciare a un prodotto meno lavorato e forse più sano per uno bello ma più trattato con sostanze che non si conoscono. A casa poi, solo le vecchie generazioni usano coltello e forchetta per togliere parti malandate, la crosta di formaggio ammuffito, il verme dalla castagna, il pomodoro inacidito. Le nuove e nuovissime generazioni appena vedono un’infiorescenza verdognola buttano tutta la confezione, non importa se da 50 o 500 grammi. I bambini rifiutano magari le fico che potrebbero raccogliersi da sé dall’albero per via delle mosche e delle api salvo poi andare a ricercare cibi pieni di conservanti unti che non scadono mai perché di componente nutritiva ne possiedono ben poca e la freschezza non sanno neppure cosa sia.
 
Si produce così un circolo vizioso per cui i distributori immettono nel circuito di vendita solo i prodotti appetibili per i consumatori che si abituano ad essi e aumentano la richiesta di questo particolare tipo di cibo. Parallelamente, gli alimenti più deperibili vengono classificati dalla distribuzione come freschi ed ultrafreschi e per le precauzioni ai quali sono sottoposti, nonché per il fatto che quotidianamente si deve ritirare parte del prodotto dallo scaffale perché scaduto o prossimo alla data di scadenza, diventano molto più costosi di altri cibi.
La Commissione Europea ha prodotto un report sullo spreco alimentare. In Europa si parla 90 milioni di tonnellate di cibo finite al macero, pari a circa 179 kg di cibo gettato pro capite. Le proporzioni variano però da paese a Paese: si va dall’1% della Germania al 21% dell’Estonia, al 5% complessivo per l’Ue. In pratica, ogni gradino della filiera di produzione, lavorazione, trasformazione, vendita e consumo comporta uno spreco. Per quanto riguarda l’Italia, circa il 3,2% della produzione agricola è rimasta in campo, equivalente a 15,1 milioni di tonnellate di prodotto agricolo. Le ragioni sono principalmente due, la non convenienza dell’agricoltore nel raccogliere il prodotto in quanto i prezzi di mercato non remunerano il lavoro, o difetti commerciali del bene (pezzature troppo grosse o troppo piccole, o danneggiate da eventi atmosferici).
Tra le rivendicazioni degli agricoltori, è impossibile non ricordare le montagne di arance che furono raccolte e poi buttate e lasciate a marcire in Sicilia perché in sovrapproduzione rispetto a quanto previsto per permettere la commercializzazione di arance di altre nazioni. Tutte quelle tonnellate furono sprecate, sacrificate in virtù di accordi che non tenevano conto del lavoro necessario a produrle.
Ma questo tipo di strategia commerciale non funziona mai. Solo appunto nei racconti morali il debole vince sul più forte. La dimostrazione la abbiamo oggi, a distanza di anni: qualcuno ha visto banchi di arance siciliane in Sicilia?

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