Quegli scavi che fanno paura. Ecco le aree ad alta instabilità - QdS

Quegli scavi che fanno paura. Ecco le aree ad alta instabilità

Rosario Battiato

Quegli scavi che fanno paura. Ecco le aree ad alta instabilità

sabato 13 Settembre 2014

Il ministero ha censito i centri di pericolo derivati dalle passate attività estrattive: in Sicilia sono 18. Sono oltre 800 le cave dismesse o abbandonate nell’isola, urgono le bonifiche

PALERMO – L’attività di scavo, al centro di un lungo dibattito siciliano sulla rimodulazione fallita dei canoni di concessione, è anche all’origine di numerosi problemi ambientali legati all’inquinamento dei suoli che fanno riferimento ai rifiuti da attività estrattiva (Rae) dei prodotti durante le attività produttive passate. Inoltre gli scavi effettuati in aree ad alta instabilità geotecnica ed idrogeologica, implicano problemi di vario genere che, secondo l’Ispra, riguardano anche la permanenza di “strutture e impianti di lavorazione abbandonati che possono rappresentare aree pericolose per il loro potenziale crollo” e quindi “numerosi vuoti sotterranei che possono manifestare in superficie problemi di sprofondamenti improvvisi del suolo (sinkholes) o di disequilibrio delle acque di falda con conseguenti improvvise fuoriuscite d’acqua all’esterno delle gallerie abbandonate”. La Sicilia è al centro del rischio.
Nel rapporto di approfondimento sulla nuova normativa comunitaria in materia, pubblicato sul sito del dipartimento Ambiente dell’assessorato regionale e realizzato dall’Ispra, si fa riferimento a una sviluppata consapevolezza circa la necessità di gestire e monitorare tutti quei centri di pericolo disseminati nel territorio europeo. Si tratta della direttiva 2006/21/CE del 15 marzo 2006, relativa proprio alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive e che modifica la precedente 2004/35/CE.
 
L’Italia l’ha accolta con l’emanazione del Decreto legislativo 30 maggio 2008 n.117 e per fare chiarezza sui punti più complessi del decreto è stato istituito un gruppo di lavoro interregionale costituito dai rappresentanti di regioni, province autonome, ministero dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare e Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (attualmente Ispra, già Apat) in cui si è cercato di fare chiarezza sui metodi di applicazione del decreto. Il documento introduce nuovi concetti (come la definizione di strutture di deposito) e nuovi oneri per le amministrazioni locali e, soprattutto, per gli operatori del settore, per i quali introduce una serie di obblighi relativamente alle fasi di progettazione, di gestione, di chiusura e post-chiusura delle strutture di deposito dei rifiuti estrattivi.
Il ministero ha anche redatto un elenco delle strutture più pericolose. Si tratta del deposito di tipo A che, così come si legge nell’articolo 9 del decreto 11/2008, comprende quelle strutture in cui un guasto o di un cattivo funzionamento quale il crollo di un cumulo o di una diga, “potrebbe causare un incidente rilevante sulla base della valutazione dei rischi alla luce di fattori quali la dimensione presente o futura, l’ubicazione e l’impatto ambientale della struttura, oppure se contiene rifiuti di estrazione classificati come pericolosi o se contiene sostanze o preparati classificati come pericolosi”.
 
In Sicilia ce ne sono complessivamente 18 (15 a rischio medio, 2 a rischio medio alto, 1 a rischio alto) a fronte di 622 presenti sul territorio nazionale. Complessivamente le cave sono molte di più. Il settore siciliano ne comprende 504 attive, terzo posto nazionale dopo Lombardia e Veneto, e 862 dismesse e/o abbandonate che spesso, anche a causa del mancato ripristino dei luoghi, ospitano discariche illegali. La Regione aveva introdotto una nuova riforma, incardinata nella legge del 15 maggio 2013, n.9, e poi cancellata nell’ultima manovra finanziaria, che prevedeva dei pagamenti ai Comuni per il recupero ambientale dei luoghi. In Sicilia manca anche il piano cave che lascia la gestione del settore praticamente priva di regole.

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