Dunque, non lavorare per raggiungere un obiettivo, tra cui anche la propria soddisfazione, che compensa spesso dei sacrifici, ma passare il tempo in un qualunque posto, attendendo con ansia che esso scada per ricevere qualcosa che non si è guadagnato: tanto questo non importa.
La classe politica è stata tanto brava a diffondere questa mentalità, per cui vi è una ressa di migliaia o decine di migliaia di persone per partecipare a un concorso pubblico bandito da qualsiasi Ente.
Qualcuno obietterà che questa propensione verso il pubblico derivi dalla mancanza di opportunità nel settore privato. Non è così, perché nel settore privato vi sono decine e decine di migliaia di opportunità che non vengono coperte perché chi chiede un lavoro non ha sufficienti competenze.
Ma perché, allora, le competenze andrebbero bene per occupare un posto pubblico? A nessuno sembra importare, perché nel pubblico ci può andare chiunque abbia uno straccio di diploma o di laurea, che non accerta le competenze ma dice che quel soggetto ha fatto certi studi.
Questa è una grave responsabilità di Scuola e Università, perché diplomano o laureano ragazzi con competenze totalmente ridotte rispetto a quello che serve nel mercato o nella Pubblica amministrazione.
Si dirà che molti giovani vincono i concorsi. è vero, giovani brillanti che vincono benissimo i concorsi pubblici ve ne sono tanti, ma ve ne sono anche tanti che vincono per le solite raccomandazioni basate sulla cultura del favore.
Nel settore privato vi è qualche raccomandazione, ma siccome l’impresa ha come obiettivo la produzione di utili, è molto difficile che si assumano persone improduttive, anche perché ogni dirigente o responsabile risponde degli obiettivi preposti ed è sanzionato quando non li raggiunge.
Ma così non è, perché dal settore pubblico si esce con la pensione o con i piedi in avanti, mentre in quello privato non vi è la necessaria mobilità. Se vi fosse, sarebbe auspicabile che ogni persona cambiasse le mansioni all’interno del luogo ove si trova, o addirittura cambiasse il luogo di lavoro. Questo sarebbe necessario perchè non devono mai mancare gli stimoli che provengono dal fare una nuova attività.
In Europa è consigliato che ogni persona cambi lavoro, nel corso della propria vita, almeno cinque o sei volte, ma questo consiglio in Italia è del tutto ignorato, tant’è vero che vi sono persone che entrano a 20 o 25 anni in un posto e ne escono a 67 o a 70.
Il lavoro cambia, cambia lavoro. Il diritto affermato dalla Costituzione è stato più volte interpretato male, perché esso riguarda le opportunità che ognuno deve avere disponibili e non un posto di lavoro qualsivoglia, perché se la Costituzione avesse affermato quest’ultimo principio avrebbe favorito la mentalità negativa che abbiamo precedentemente analizzato.
Il mondo del lavoro dovrebbe avere regole ordinarie e non straordinarie. Fra queste non può continuare a essere onerato da un pesantissimo cuneo fiscale, secondo cui il prestatore d’opera percepisce la metà del relativo costo aziendale. In altri termini, un dipendente che percepisce 1.500 euro netti costa all’impresa o all’Ente pubblico 3.000 euro. Questo è inaccettabile anche perché tutti gli oneri previdenziali e fiscali alimentano una macchina pubblica che spreca decine e decine di miliardi di risorse.
Ma neanche la Legge di stabilità 2018 ha provveduto a tagliare sprechi, inefficienze e spesa corrente cattiva. A quando la svolta?