Piccoli Comuni, specie in via di estinzione - QdS

Piccoli Comuni, specie in via di estinzione

Rosario Battiato

Piccoli Comuni, specie in via di estinzione

martedì 07 Agosto 2018

In Sicilia la maggior parte dei piccoli centri vive in difficoltà infrastrutturali ed economiche. Per questo i giovani se ne vanno, condannando le comunità a un inesorabile spopolamento. Indispensabile accorpare gli uffici per puntare su progettualità ed efficienza dei servizi 

PALERMO – I turisti li adorano, i residenti un po’ meno. I piccoli comuni di tutta Italia registrano i tassi più bassi in relazione alla criminalità e per percezione del rischio, e i più elevati per propensione alla condivisione e all’associazionismo e, in generale, per soddisfazione della vita. Ma questi numeri non impediscono un costante svuotamento e una crisi economica di lunga data, mentre continua a svalutarsi il patrimonio immobiliare – tendenza negativa pari allo 0,8% nel primo semestre del 2018 per i piccoli centri rispetto a dicembre, secondo Immobiliare.it – che già di base costava molto meno (da 2.687 a 979 euro a mq rispettivamente per città oltre i 250 mila abitanti e quelle inferiore a 5 mila). Soprattutto in Sicilia, dove la maggior parte dei piccoli centri è in seria difficoltà infrastrutturale ed economica, la crisi sembra particolarmente avanzata e senza interventi adeguati il rischio estinzione, di questo passo, non è poi così lontano.


RISCHIO SPOPOLAMENTO – Negli ultimi sei anni i piccoli Comuni di tutta Italia hanno perso 74 mila abitanti. A livello nazionale, secondo quanto riportato nello studio dell’Anci sulla base di dati Istat, il “saldo migratorio interno (iscrizioni-cancellazioni tra Comuni) nei piccoli centri registra un valore negativo di 3.400 unità nel 2012; il valore del 2017 è di meno 16.000”. Un’emorragia che coinvolge da vicino anche i 207 siciliani, che negli ultimi anni hanno fatto registrare dei costanti passi indietro, così come confermano le ultime rilevazioni. Al primo giugno del 2018, stando ai dati rilasciati nel corso della XVIII Conferenza nazionale Anci Piccoli Comuni “Small city & Smart Land”, che si è tenuta a metà luglio, la popolazione isolana residente in queste realtà ammontava a quasi mezzo milione di persone, precisamente 497.396. Un numero che si è lievemente contratto rispetto ai dati al 2017, quando il totale ammontava a 497.850. Mezzo migliaio di persone in meno, che però erano ancora di più nel censimento del 2001, quando ne erano state registrate 500.910, circa tremila in più.
 
FRAGILITÀ ECONOMICHE E TERRITORIALI – Ci sono 23 piccoli Comuni siciliani che rientrano nelle aree segnalate dall’Anci come “a forte rischio idrogeologico”, perché più del 20% della popolazione risulta essere a rischio frana. Al rischio territoriale si associa la fragilità del tessuto produttivo. In un rapporto realizzato da Legambiente in collaborazione con Unioncamere e Symbola, si legge che “i territori della ‘buona volontà’ (dove cultura, turismo, agricoltura erano e sono prevalenti), nonostante sforzi e dotazioni potenziali, hanno ‘limitato il passivo’ ma, generalmente, sono impoveriti dal punto di vista economico, sociale e infrastrutturale, soprattutto nelle aree interne dell’Appennino e del Sud, in particolare in Campania, Puglia e Sicilia”.
Difficoltà registrate anche dall’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, che in uno degli ultimi rapporti dal territorio aveva individuato una specifica differenziazione tra piccoli comuni “che tengono”, quindi che in qualche misura resistono alla fuga e alla grande crisi economica “perché possono far conto – si legge sul rapporto – su risorse demografiche, economiche e insediative che li preservano dalla minaccia di marginalità, e sulle quali si può costruire un apprezzabile sistema di offerta di servizi rurali”, e altri sul viale del tramonto”. Nell’Isola ne sono stati registrati complessivamente 200, di questi soltanto 19 sono “quelli che tengono” – in tutta Italia sono più di 900 e ospitano il 5% della popolazione occupando il 7% del territorio e costituiscono un diffuso presidio del territorio rurale – mentre ce ne sono altri 181 considerati “minimi, poveri e radi”.


LE STIME DEI RISPARMI – I piccoli siciliani non vogliono fondersi. Un’opportunità dettata dal Decreto legge n. 78 del 2010 (convertito nella legge 30 luglio 2010, n.122), poi consolidato con l’approvazione della Legge n. 56 del 2014, anche se la possibilità della fusione tra Comuni è già presente in Italia dai primi anni Duemila, con la possibilità dell’associazionismo–fusione (trasformazione di Comuni in un nuovo Ente con cessazione degli organi) oppure l’unione (nuovo Ente che mantiene operativi i singoli Comuni) e la convezione (accordi al fine di svolgere in maniera coordinate determinate funzioni e servizi).
La normativa siciliana (articolo 41 della lr n.15/2015) vieta ai Comuni di costituire nuove entità, inclusi le tipologie agli articoli 31 (Consorzi) e 32 (Unioni di Comuni) del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per l’esercizio associato di funzioni, fatte salve quelle previste per legge nonché le convenzioni per l’espletamento di servizi.
In ogni caso la Sicilia non è mai stata particolarmente propensa a ridurre il numero dei servizi comunali: negli ultimi 20 anni in Italia ci sono state 535 Unioni (47 per 172 Enti in Sicilia) e 141 referendum per la fusione (zero in Sicilia). Coinvolti 402 Comuni e di 1,5 milioni di persone (dati Ancitel, società di servizi per i comuni dell’Anci), nessuno in Sicilia.
 
Dalla fusione dei piccoli Comuni isolani, eppure, potrebbe derivare un discreto risparmio annuale. Sulla base dei dati contenuti in uno studio del dipartimento per gli Affari interni e territoriali del ministero dell’Interno, è stato possibile associare una spesa di circa 318,5 milioni di euro per 200 Enti locali isolani, al netto delle spese di personale. Applicando le proiezioni di riduzione dei costi ottenute a livello nazionale, sulla base dei vari processi di fusione e unione, la spesa corrente dei siciliani passerebbe da 318,5 a 245 milioni di euro, generando risparmi per circa 70 milioni di euro. In altri termini, il costo pro capite, pari a 636 del pre-accorpamento, passerebbe a circa 489 euro.
 



Investimenti indispensabili per invertire la tendenza
 
PALERMO – Lo scorso anno la normativa “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli Comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi Comuni” (158/2017), meglio conosciuta come legge Realacci, approvata nell’ottobre e in vigore da novembre, aveva messo in campo, tra le altre cose, un centinaio di milioni di euro per finanziare investimenti (10 mln nel 2017 e 15 mln per ciascuno degli anni dal 2018 al 2023), il recupero dei centri storici e di altri siti dismessi (anche in collaborazione con le diocesi). Se ne è discusso nel corso della XVIII Conferenza nazionale Anci piccoli Comuni di Viverone (Biella) di metà luglio.
Per Massimo Castelli (nella foto), sindaco di Cerignale e coordinatore nazionale Anci dei piccoli Comuni, la “Legge sui piccoli comuni è l’opportunità per parlare di politiche di controesodo a partire dagli investimenti per ‘rimettere’ il territorio fino al mantenimento dei servizi sullo stesso sempre con l’attenzione rivolta alle specificità”.
Una normativa che “apre una nuova via verso un nuovo Ovest italiano da riconquistare con delle politiche innovative che tengano conto dei mutamenti sociali e ambientali per dare nuova vita e nuova forma alla dimensione Paese”.
In tal senso si continua a lavorare anche sulla base di azioni concrete, come per esempio, ha proseguito il sindaco, “l’investimento di miliardi di euro per portare la fibra ottica anche nelle aree più marginali” per una scelta dal valore “tangibile e simbolico, perché permetterà di azzerare le distanze mettendo tutti democraticamente nella condizione di comunicare, di condividere, di esserci”.

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