Femminicidio e violenza sulle donne, intervista a criminologa - QdS

Femminicidio e violenza, la criminologa: “Ecco come funziona la manipolazione”

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Femminicidio e violenza, la criminologa: “Ecco come funziona la manipolazione”

Marianna Strano  |
sabato 25 Novembre 2023

Di femminicidio parlano tutti, ma le dinamiche che portano alla violenza estrema sono un mistero per molti. Al QdS parla l'avvocato penalista criminologo Giorgia Bagnasco.

Ci sono pochi mali che possono vantare l’attenzione pubblica che nelle ultime settimane hanno attirato i femminicidi e la violenza sulle donne. Il caso di Giulia Cecchettin è solo la punta dell’iceberg, l’ennesimo episodio che scatena la rabbia collettiva e il dolore di fronte a un fenomeno che si appresta a trasformarsi… anzi, che già è emergenza nazionale e internazionale.

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, l’obiettivo non è solo ricordare – una per una – tutte le vittime, dalla siciliana Marisa alla veneta Giulia; lo scopo primario è riflettere, comprendere, prevenire più che curare e agire quando ormai non c’è più nulla da fare. Lo Stato e la società non sono bastati a salvare Giulia e le altre 105 donne massacrate dall’inizio dell’anno a questo nefasto novembre, ma possono ancora fare tanto per ridurre drasticamente i numeri della “mattanza” e salvare chi soffre ancora in silenzio. Di quest’ultima categoria di donne non conosciamo i nomi, ma conosciamo per sommi capi la triste storia fatta di orrore, paura e violenza.

Comprendere la violenza sulle donne è difficile, a tratti quasi impossibile. Per analizzare in maniera chiara il fenomeno e fare informazione sul tema, al QdS interviene l’avvocato Giorgia Bagnasco, criminologa e attivista impegnata con la Manisco World per il supporto alle famiglie di persone scomparse, morte in circostanze misteriose e vittime di psicosette.

Giorgia Bagnasco, avvocato e criminologa
In foto: Giorgia Bagnasco, avvocato e criminologa

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Femminicidi e violenza sulle donne, tutto parte dalla manipolazione

Femminicidi e violenza di ogni tipo sono spesso figlie dello stesso male: la manipolazione. Una persona si annulla per l’altra, vive nel terrore di deluderla e nel timore di ripercussioni, viene indotta ad agire diversamente da come farebbe in piena libertà e a seguire un copione che pensa essere stato inciso su pietra. Un copione che, spesso e volentieri, si conclude con un estremo gesto di violenza o culmina in omicidio.

Quali sono i segnali a cui prestare attenzione? Il primo: il desiderio di possesso e controllo. Un segnale difficile da cogliere a volte, mascherato com’è da finto amore e attenzione quasi “ossessiva” ma a tratti lusinghiera. “L’obiettivo del manipolatore è il controllo. Potere e controllo per il manipolatore sono due facce della stessa medaglia. L’altro diventa così un oggetto da possedere e distruggere”, spiega l’avvocato Bagnasco.

Il primo passo per combattere la violenza sulle donne è (ri)conoscerla, in qualsiasi forma essa si presenti (fisica, psicologica, economica o sessuale). Non è facile, ma conoscere le “tecniche” del manipolatore può essere un supporto.

La prima è il cosiddetto “Love Bombing“, il bombardamento d’amore. L’avvocato Bagnasco spiega così il termine, coniato dalla psicologa Margaret Singer nel suo libro “Cults in our minds”: “È idoneo a descrivere i modelli di comportamento usati da sette e psisosette, istituzioni, professionisti o semplici persone al fine di operare plagio, condizionamento e manipolazione. Consiste nel riempire l’altra persona di vere e proprie manifestazioni amorose ed è una tecnica utilizzata dai guru delle psicosette, come da un partner all’interno di una relazione tossica, da un datore di lavoro o perfino da pseudo-amici manipolatori”.

Quando “non è amore”

Il love bombing è il primo approccio del manipolatore, che ha l’obiettivo di conquistare per “arrivare a ottenere il massimo controllo“. Frasi apparentemente innocue come “Non ho mai incontrato nessuno di così perfetto” o “Voglio stare sempre con te”, se dette troppo presto o accompagnate da atteggiamenti di controllo e gelosia morbosa, possono diventare un campanello d’allarme. “Si tratta di frasi che di per sé nell’ambito di una relazione consolidata non avrebbero nulla di male, ma che oggettivamente se giungono fin troppo presto nella relazione (anche non sentimentale) e non sono frutto di veri sentimenti possono essere parte del piano criminoso per conquistare la preda”, precisa l’avvocato Bagnasco a tal proposito.

Una volta fatta innamorare la vittima designata, il manipolatore procede con la seconda fase del suo progetto di violenza. La più silenziosa ma anche la più pericolosa: l’isolamento. L’allontanamento della vittima da tutti quelli che “potrebbero tenerla agganciata a una prospettiva più lucida” è necessario per il manipolatore. E se la vittima si accorge di tutto e inizia ad allontanarsi, c’è la terza fase: quella della colpevolizzazione e del ricatto emotivo. “Se mi lasci, mi ammazzo” o “ti ammazzo”. La prima più improbabile, la seconda purtroppo – con i dati sui femminicidi alla mano – più concreta in buona parte dei casi.

Violenza sulle donne: “Non è colpa delle vittime”

“Sfatiamo un mito: non è detto che la vittima di un manipolatore debba essere una persona fragile e indifesa. Gli esseri umani sono ‘finiti’ e non infiniti, per cui nel corso della vita possono attraversare un momento di fragilità ed è per questo che dobbiamo fare molta attenzione alle persone che si presentano nella nostra vita e manifestano una particolare attenzione al nostro dolore. Perché in quel momento la nostra lucidità vacilla e i manipolatori fiutano la nostra instabilità, per loro è terreno fertile”.

Le parole dell’avvocato Giorgia Bagnasco sfatano un mito sulla violenza sulle donne: che la vittima sia una persona fragile, incapace di pensare a se stessa, predisposta a sottomettersi all’altro. Niente di più sbagliato: la vittima non è colpevole e nessuno è immune da un momento di debolezza che il manipolatore, lo stalker o il potenziale assassino può trasformare in un’occasione per esercitare la sua mania di controllo.

Codice rosso e non solo, cosa fa la legge

Dieci anni fa l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul, che opera sulla base di 4 pilastri contro la violenza sulle donne e contro la persona in generale: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, repressione e politiche integrate. Da allora sono cambiati innumerevoli Governi, tante leggi sono passate al vaglio della politica, innumerevoli appelli di vittime e famiglie devastate dall’orrore della violenza contro le donne sono arrivati ai media e alla popolazione civile. La soluzione, se si celebra ancora la Giornata internazionale del 25 novembre con dati così devastanti, non c’è ancora. In Italia come all’estero, è importante precisarlo.

Al centro del dibattito pubblico ora c’è la riforma al Codice Rosso, al quale si cerca di mettere mano ogni volta che un caso attira l’attenzione pubblica. Si cerca una strategia contro la violenza. Il Codice Rosso ha permesso enormi passi in avanti, introducendo per esempio reati come “il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, quello di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti noto come revenge porn e quello di costrizione o induzione al matrimonio”. Giusto per citare degli esempi.

“Si punta troppo alla repressione, poco alla prevenzione”

L’impegno dello Stato e della Legge contro la violenza sulle donne c’è. C’è un ma, tuttavia. “Il legislatore è indubbiamente zelante, ma solo nella realizzazione dell’ultimo degli obiettivi previsti dalla Convenzione di Istanbul. Infatti, nella convenzione gli obiettivi non sono posti a caso, ma in ottica progressiva e interdipendente. La convenzione mette al primo posto tra gli obiettivi la prevenzione, prosegue con la protezione e, solo in ultimo, parla di repressione. Il motivo per il quale nonostante i numerosi interventi a carattere repressivo, la violenza di genere continua a far registrare numeri sempre più alti sta nel fatto che il contrasto al fenomeno non può essere affidato solo alla funzione deterrente della pena, ma è un fenomeno che per essere contrastato efficacemente deve essere contrastato con un piano d’azione a 360°“.

Prevenire è meglio che curare, dice un antico detto. Ma nel caso della lotta alla violenza contro le donne purtroppo non sembra del tutto vero. “Sono anni che bombardiamo le donne con l’invito a denunciare, ma perché non diciamo le cose come stanno e diciamo che in realtà molte donne non denunciano perché si sentono loro stesse colpevoli? Il vero problema sta nella coercizione psicologica che il carnefice attua sulla propria vittima, facendola sentire sbagliata, a disagio, includendole insicurezza, ansia, paura, facendole sentire incapace di relazionarsi con il mondo. Per quanto possiamo attuare un piano repressivo di una certa portata, rendiamoci anche conto che la violenza di genere viene perpetrata tra le mura domestiche. Pertanto, per quanto – ed è giusto – si debba pretendere azione da parte delle forze di polizia e dall’ordinamento giudiziario, sono sempre interventi che potranno arrivare dopo”.

“Se vogliamo veramente dare una risposta incisiva all’elevato numero di vittime dobbiamo interrogarci su come possiamo agire sul prima”, aggiunge la criminologa, sostenendo che “non basta un inasprimento delle pene ma occorre prendere consapevolezza del fenomeno come un fenomeno di matrice culturale e iniziare con una seria educazione civica“.

Nella mente del manipolatore: “Il violento non è sempre pazzo”

Quante volte, davanti all’ennesima notizia di violenza contro le donne – uno stupro, un caso di abusi psicologici o un omicidio – letta su giornali e siti web, ci diciamo: “Quello (l’indagato o il sospettato del delitto, ndr) è pazzo?”. Anche questo è un luogo comune: “Dobbiamo uscire dalla convinzione che lo stalker o il violento sia necessariamente pazzo”.

Spesso e volentieri – e lo specifica anche un recente report della Polizia di Stato – “il mostro ha le chiavi di casa” ed è una persona apparentemente normalissima. Di quanti (presunti e reali) killer si dice: “Eppure è una brava persona”? E in quanti la difesa prova a puntare sull’incapacità di intendere e di volere dell’accusato al momento del delitto per trovare una “scusa”, se così è possibile chiamarla, o dare una spiegazione a orrendo fenomeno di violenza? Tantissimi.

La verità è ben diversa: spesso nella mente del manipolatore che diventa stupratore o assassino “non scatta niente“. E spesso dietro non c’è follia, ma un “intoppo” nel piano di manipolazione e possesso messo in atto per sottomettere la vittima.

La pena, come funziona in aula

“In aula non interessano di per sé i presupposti che muovono un soggetto, che possono venire in gioco in un secondo momento per il riconoscimento di eventuali circostanze che siano aggravanti o attenuanti. Interessa il dolo, la volontà consapevole di commettere un crimine”, spiega l’avvocato Bagnasco delineando per sommi capi cosa importa in un processo per casi di violenza contro le donne e femminicidio.

“Sul dolo si gioca la vera partita in aula. Che si vince (o perde, a seconda dei punti di vista) con un unico strumento: la perizia psichiatrica. Un soggetto accusato di reati violenti viene sottoposto a tale accertamento, con l’obiettivo di dirci se il soggetto al momento della consumazione del reato fosse in grado perfettamente di intendere e di volere”.

L’avvocato Bagnasco, però, precisa: “Sul piano dell’esecuzione della pena non cambia gli interventi”. Il soggetto ritenuto incapace di intendere e di volere non sfugge del tutto alla pena né a misure di sicurezza specifiche.

Una narrazione sbagliata della violenza sulle donne

Di violenza sulle donne parlano tutti. Alcuni casi diventano mediatici, altri passano più sotto silenzio. Tutti hanno un’opinione in merito: cittadini, enti, istituzioni, media. Quando ne parlano tutti, però, il rischio di sbagliare metodo e contenuti della narrazione aumenta.

Cosa sbagliamo nel raccontare il fenomeno? A tal proposito la criminologa Bagnasco risponde: “Spesso si pensa che la violenza sia qualcosa legata a certi ambienti culturali. Come se ‘una brava persona’ e ‘di buona famiglia’ non possa in realtà avere dentro di sé un incredibile lato oscuro maligno senza essere in grado di governarlo. In realtà, le vittime e i carnefici sono spesso inglobati in un tessuto sociale apparentemente normale”. Il problema non è l’ambiente d’origine, che può essere il quartiere di lusso come quello periferico e malfamato, ma l’educazione di base. Mancano seri modelli educativi, per l’avvocato Bagnasco.

“Non si educa più (non in tutti i casi, per fortuna) il figlio alla ricerca di sé stesso ma a essere il migliore secondo alcuni canoni imposti dalla società. Non si educa il figlio a normalizzare i ‘No’ della vita. Non si educa alla sana ambizione ma alla semplice competizione con l’altro, che nel momento in cui minaccia il nostro sistema di perfezione diventa un potenziale nemico da eliminare”, spiega la criminologa.

Conclude così, l’avvocato Bagnasco. Nell’incitare le donne vittima di violenza a denunciare e a non lasciarsi mai isolare da chi le conosce bene e può aiutarle, la criminologa invita a riflettere sui modelli educativi che imponiamo e che riceviamo, sulla presenza della violenza e della prevaricazione nella quotidianità e sulla necessità di agire su un livello che è assieme sociale, culturale e politico-legislativo per porre fine a uno dei mali della società del nostro tempo. Anzi, di tutti i tempi.

Immagine di repertorio

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