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La frattura Moro

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La frattura Moro

Giovanni Pizzo  |
venerdì 31 Maggio 2024

Una delle più profonde ferite nella storia della democrazia italiana, che lascia ancora tanti dubbi e perplessità.

È storicamente, politicamente, socialmente innegabile che il rapimento, e la conseguente morte, del segretario della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, non fu un incidentale, per quanto eclatante, tragico evento. Ma fu una cesura, una irreparabile frattura della storia della giovane democrazia italiana.

Dopo Moro l’Italia non fu più la stessa, il sogno di una repubblica indipendente, democratica, avanzata, si spense in via Caetani il 9 maggio 1978, all’ora di pranzo, con gli italiani davanti al telegiornale. Se n’è discusso a palazzo Giustiniani di fronte ai chiaroscuri del Caravaggio a S.Luigi dei Francesi, con Claudio Signorile, leader socialista, e Simona Colarizi, nota storica italiana. A dibattere con gli autori c’erano anche Enzo Scotti, Walter Veltroni ed Enrico Mentana. La platea era un ritorno di marea di prima Repubblica, da Gargani a Sanza, da Cicchitto a Follini, e pezzi di seconda e terza ad ascoltare e cercare di capire come e perché si era girato l’interruttore della Storia.

Il vero problema che affronta il libro, pieno di analisi e testimonianze dirette, è il perché, perché Moro doveva morire, al di là dei tentativi di salvarlo in quei 55 drammatici giorni. Cui prodest la morte di Moro? A tanti, in Italia e soprattutto fuori dall’Italia, in uno scenario internazionale in profonda mutazione, ma che si reggeva ancora sugli accordi spartitori di Yalta. Il compromesso storico, ancorché contingente alla solidarietà nazionale, in tempo di contrasti e terrorismo, e soprattutto di inflazione, gestito tra Moro e Berlinguer, rompeva lo schema di Yalta. Di più, mentre Berlinguer ancora pensava a una temporanea riedizione del clima del CNL, il suo partito il PCI era gestibile solo ai fini di una Tregua politica, Moro andava oltre, e pensava già a un sistema politico basato sull’alternanza, dentro un quadro di reciproco riconoscimento democratico tra partiti. Poi chi aveva più filo da tessere, tesseva, e Moro ne aveva di filo.

Ma quel filo non piaceva ai blocchi di potere internazionali, ma anche locali, e fu interrotto, spezzato. Moro non fu ucciso in un raid, omicida e irruento, tu tenuto in ostaggio quasi due mesi; fu il contesto, italiano ed estero, a non volerlo salvare. Non fu salvato scientemente, e il pregevole libro, con il senso lucido della storia, lo spiega dando nuovi spunti, non alla spy story, ma all’analisi politica. L’Italia non salvando il leader DC fermò il suo cammino di costruzione della democrazia, i partiti uscirono diroccati dal caso Moro, e vivemmo un tempo sospeso, coscienti della democrazia limitata, al di là del vespro siciliano di Sigonella, fino a Tangentopoli. Poi tutto cambiò.

Si passò dalla democrazia limitata a quella non partecipata, i partiti cessarono la funzione prevista in costituzione, e da allora si giocano riffe elettorali per non abiurare il sentimento democratico uscito dal famoso, ma ormai troppo lontano, 25 aprile. Un popolo che voglia coscienza di sé dovrebbe abolire l’anacronistico, ormai, 1 maggio e istituire il giorno della consapevolezza proprio il 9 del mese mariano. Non tanto, o solo, per rispetto a un grande, colto, italiano indipendente, ma per tentare di maturare un sentimento di comunità.

Cosi è se vi pare.

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