La giustizia riparativa nei reati di tipo fiscale - QdS

La giustizia riparativa nei reati di tipo fiscale

Salvatore Forastieri

La giustizia riparativa nei reati di tipo fiscale

venerdì 22 Dicembre 2023

Il Dlgs 150/2022 ha modificato l’articolo 131 bis del Codice penale integrando nuovi strumenti a quelli preesistenti. Ma per ottenere l’attenuante in materia penale, devono sussistere determinate condizioni come la tenuità del danno

ROMA – La giustizia riparativa è un tipo di approccio che, considerando il reato commesso, inteso come danno alla persona, permette alla vittima, congiuntamente all’autore del reato, di partecipare liberamente alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato commesso, rimediando pure al danno causato, anche con l’aiuto di un soggetto terzo imparziale.

La questione della giustizia riparativa nasce essenzialmente a seguito della “Riforma Cartabia” (D.Leg/vo 10/10/2022 n.150) che all’articolo 119 bis, modificando l’articolo 131 bis del Codice Penale, introduce nuovi modelli riparatori destinati ad integrarsi con i modelli già esistenti in diritto penale.
Il problema, tuttavia, è quello di capire se questi strumenti riparatori, essenzialmente il citato articolo 131 bis del C.P., possono essere applicati anche in ambito tributario, ossia quando la violazione di una norma fiscale comporta l’applicazione di sanzioni penali.

In verità, la legge 74 del 2000 (sui reati fiscali) prevede già circostanze attenuanti della pena, legate ad adempimenti riparativi da parte del reo, come il caso della riduzione della pena alla metà e non applicazione delle pene accessorie in caso di pagamento del tributo e delle sanzioni, anche attraverso la procedura conciliativa tributaria (art. 13), oppure il caso in cui il tributo è colpito da prescrizione o decadenza ed il contribuente, per ottenere l’attenuante in materia penale, provvede al pagamento di una somma a titolo di riparazione dell’offesa prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (art. 14).

Capita, infatti, che un soggetto che ha commesso reati fiscali, nella prospettiva di dover sostenere un processo penale con tutte le implicazioni ad esso connesse, magari ricevendo l’invito del fisco, a lui non conveniente, di pagare una somma considerata non corretta, potrebbe aderire alle nuove forme di definizione.

C’è da dire, peraltro, che la norma penale, recentemente introdotta, pare essere in linea con le disposizioni in materia di reati fiscali, nonché con le disposizioni contenute nella Legge delega sulla riforma Tributaria (Legge n. 111 del 9 agosto 2023) che, all’articolo 20, attribuisce “specifico rilievo alle definizioni raggiunte in sede amministrativa e giudiziaria ai fini della valutazione della rilevanza penale del fatto”.

Ecco quindi la frequente richiesta della disposizione di cui al primo comma del novellato articolo 131 bis del codice penale secondo il quale “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

Sull’applicabilità, in genere, dell’articolo 131 bis in materia di reati fiscali si ricordano alcune sentenze della Corte di Cassazione la quale, anche recentemente (vedasi in particolare la Sentenza n. 28031 del 28/6/2023), ha affrontato la questione e, con la citata sentenza, più in particolare, ha ritenuto applicabile l’articolo 131 bis in caso di omesso versamento Iva (ex art. 10-ter D.Leg/vo 74/2000) per un importo abbondantemente oltre la soglia di non punibilità (l’imposta non versata era di Euro 710.000).

C’è da dire pure che, ai fini dell’applicazione della citata disposizione di cui all’articolo 131 bis, è necessario che sussistano altre condizioni.
Innanzitutto occorre che la pena minima edittale prevista non sia superiore a due anni. Poi occorre la “tenuità” del danno; ed a questo proposito giova ricordare che non esiste una specifica norma che quantifica la misura di detta “tenuità” la quale, tuttavia, per prassi, viene presa in considerazione quanto la somma non versata non è superiore al 10% dell’intera somma dovuta. Ed ancora occorre che la condotta del reo non solo non sia considerata “abituale”, ma anche che la condotta successiva alla commissione del reato sia conforme alla legge e volta alla regolarizzazione della violazione.

Condizioni, quelle ora cennate, che sono state valutate anche dalla Corte di Cassazione con la citata Sentenza n. 28031/2023 (ed in altre dello stesso oggetto).
Con tale sentenza, infatti, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, motivando tale decisione non solo per il fatto che la somma dovuta è stata poi tutta regolarmente, seppure in forma rateale, versata all’Erario, ma anche valorizzando il comportamento “susseguente”, ossia quello adottato successivamente alla violazione dal suo autore (sostanzialmente neutralizzando “la gravità dell’offesa”), comportamento sicuramente apprezzabile anche nel caso de quo (fatto avvenuto prima dell’introduzione della nuova norma) tenuto conto che si tratta di una disposizione attenuativa di natura penale applicabile, come tale, con effetto retroattivo secondo quanto disposto dall’articolo 2, 4° comma del codice penale.

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