Cosa nostra, perché Aldo Ercolano è ancora pericoloso

Cosa nostra, perché Aldo Ercolano è ancora pericoloso. I dettagli del ricorso della procura

Antonino Lo Re

Cosa nostra, perché Aldo Ercolano è ancora pericoloso. I dettagli del ricorso della procura

Simone Olivelli  |
giovedì 01 Febbraio 2024

L'approfondimento del QdS sui rilievi presentati dai magistrati Sebastiano Ardita e Fabio Regolo

Il fatto che un boss del calibro di Aldo Ercolano possa avere incassato alcune assoluzioni, anche perché da tanti anni rinchiuso in carcere, non può bastare a stabilire che non sia più pericoloso. La tesi, nei giorni scorsi anticipata da diverse testate, è condivisa dalla procura distrettuale e dalla procura generale di Catania e sta alla base del ricorso contro la decisione del tribunale etneo che, il 9 gennaio scorso, ha dichiarato non necessaria l’applicazione di una misura di prevenzione nei confronti di Ercolano, a differenza di quanto disposto per lo zio Nitto Santapaola.

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Il QdS è in grado oggi di approfondire i rilievi presentati dai magistrati Sebastiano Ardita, coordinatore delle misure di prevenzione, e Fabio Regolo, nell’ambito di una vicenda che – al di là del caso specifico – apre a riflessioni replicabili anche altrove e che mette in discussione, a livello ontologico, il concetto stesso di appartenenza a un’associazione mafiosa.

Se da un lato, la condizione di ergastolano di Ercolano – il cui curriculum rimanda a più di uno dei fatti che hanno segnato la storia della Sicilia, come l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava – non verrebbe intaccata dalla mancata misura di prevenzione, dall’altro è lecito chiedersi se questo tipo di pronunciamenti sulla non pericolosità del boss non possano in prospettiva aprire la strada alla richiesta di misure alternative alla reclusione in carcere. Va ricordato, in tal senso, che Ercolano ha già ottenuto l’annullamento del 41 bis, passando al regime di alta sicurezza.

Al 41 bis non si viene detronizzati

Il ruolo apicale di Aldo Ercolano all’interno di Cosa nostra etnea è assodato da numerose sentenze. Arrestato nel ’94, un anno dopo lo zio Nitto, il suo nome compare in quasi tutte le inchieste che in questi decenni hanno interessato la famiglia Santapaola-Ercolano. Anche da dietro le sbarre, il peso specifico dei vertici mafiosi rimane inalterato. Questo perlomeno è ciò che si è sempre detto e ciò che le inchieste antimafia – a Catania come altrove – continuano a raccontare: giovani leve che si ispirano all’immagine dei boss e sognano di diventare come loro, sodali d’un tempo che rimarcano come sia necessario rispettare le gerarchie. Nel caso di Aldo Ercolano, i magistrati che hanno fatto ricorso contro la decisione del tribunale rimarcano come il boss, meno di un decennio fa, sia stato tirato in ballo nel corso di una serie di intercettazioni confluite nell’inchiesta Samael, sul tesoretto di Cosa nostra a Catania. A parlare in quel caso erano stati Giuseppe Mangion, conosciuto come Enzo e cognato di Ercolano, e Giuseppe Cesarotti; l’oggetto di discussione la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei terreni della Tropical Agricola, società un tempo denominata Antoniocostruzioni e dietro cui ci sarebbero stati, oltre allo stesso Cesarotti, anche Nitto Santapaola e Aldo Ercolano. “Vedi che questi te li manda u zu Pippu, per un’operazione che è di Aldo”, è una delle frasi intercettate nel 2014 a casa Mangion.

“Le assoluzioni di merito – si legge nel ricorso firmato dai pm Ardita e Regolo – sono in prevalenza conseguenti alla mancanza di elementi idonei a ricondurre in capo al proposto la responsabilità penale per il delitto di associazione mafiosa essendo egli detenuto nel periodo riportato in contestazione. Dette pronunce non escludono pertanto l’appartenenza del soggetto in ruolo di vertice all’associazione mafiosa Santapaola, ma semplicemente precludono la possibilità di considerare integrato il fatto reato come conseguenza della impossibilità di contribuire con apporto fattivo ai fini dell’associazione. Esse – continuano i magistrati – non affermano minimamente la cessazione dei legami di solidarietà criminale con l’associazione mafiosa”.

“Ercolano è ancora il collante in Cosa nostra”

Nel ricorso viene ricordato che in materia di misure di prevenzione vanno considerate non soltanto le condanne penali, ma anche gli elementi prognostici. In altre parole la probabilità che Ercolano, alla luce di quanto commesso in passato, possa tornare ad adottare comportamenti antisociali. “Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione – scrivono i magistrati citando precedenti pronunciamenti della Cassazione – non viene ritenuto colpevole o non colpevole in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto pericoloso o non pericoloso in rapporto al suo precedente agire elevato a indice rivelatore della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale”.

Da questo punto di vista, la procura contesta il mancato peso dato alle parole di Mangion e Cesarotti. “Sono state considerate quali mere opzioni dei dialoganti, come fossero soggetti inconsapevolmente operanti nel solco della leadership del proposto”, si legge nel ricorso. Una posizione quella del tribunale che sarebbe frutto del convincimento secondo cui Ercolano ormai da tempo darebbe prova di essere avviato sulla strada del recupero sociale. Per Ardita e Regolo, invece, proprio quelle intercettazioni dimostrano come il boss ancora oggi “costituisca un vero collante rispetto alla concreta operatività dell’associazione mafiosa che porta il suo nome”.

Come rapportarsi con lo Stato

In assenza di concreti segnali di interruzione dei rapporti con la criminalità organizzata – ma neanche di semplice dissociazione dall’associazione mafiosa – forniti da Ercolano, per i magistrati soffermarsi sulla buona condotta e l’atteggiamento dialogante mostrato dal boss in questi anni per determinare la venuta meno della pericolosità sociale sarebbe un abbaglio. “Comportamenti non solo comuni, ma addirittura obbligatori per quanti abbiano la responsabilità della gestione di una associazione mafiosa, ossia di un organizzazione che per struttura è orientata a ricercare il rapporto con il potere pubblico”, ricordano Ardita e Regolo. Strategie che anche gli affiliati in libertà conoscono e tengono in considerazione: “L’assenza di elementi espliciti provenienti dal capo detenuto che manifestino una diretta ed indiscutibile interruzione dei rapporti con l’associazione mafiosa si risolve in un comportamento volontario e temporaneo di attesa e idoneo alla prima occasione – concludono i magistrati – a tramutarsi in una attiva ripresa della leadership del gruppo”.

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