Operatori sanitari, "unico conforto" per un paziente Covid - QdS

Operatori sanitari, “unico conforto” per un paziente Covid

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Operatori sanitari, “unico conforto” per un paziente Covid

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venerdì 26 Marzo 2021

L’esperienza di Giacomo Patti, un biologo in pensione nel reparto di Pneumologia Covid del Garibaldi Centro. "Non potrò più rivedere molti dei miei compagni di viaggio".

Il dolore più grande che l’esperienza del ricovero, presso il reparto di Pneumologia Covid del Garibaldi Centro, ha lasciato a Giacomo Patti, medico biologo in pensione, è la certezza che non potrà più rivedere quei pazienti, compagni di viaggio in quei giorni in cui ha dovuto fare i conti con il coronavirus.

A quell’ingegnere poliglotta novantenne, che aveva lavorato tutta una vita in Arabia, lo aveva salutato dandogli appuntamento appena si fosse ristabilito, e così pure al settantacinquenne avvocato catanese, al quale aveva prestato il telefono per poter rivedere la moglie e la figlia…. Ma né l’uno né l’altro potrà più rivedere.

Unico conforto oltre alla solidarietà, alla condivisione dei momenti di fragilità fra pazienti in quei giorni che l’ottantenne medico in pensione ha raccontato al QdS è stato “lo spirito di abnegazione e buona volontà” di medici, infermieri e operatori sanitari che ha incontrato in quelle settimane in cui è stato paziente proprio in quell’ospedale in cui ha lavorato…. “Per me erano diventati i miei angeli, non mi sono mai sentito solo nonostante la malattia costringa alla lontananza dagli affetti più cari – spiega il medico. Non nego la mia meraviglia nel constatare un tale altruismo nei confronti di tutti, ma naturalmente ancor più nei confronti dei più gravi. Seppur il tutto sia reso più complicato dal fatto che, per forza di cose, devono essere schermati dai dispositivi di protezione individuale”.

Il biologo non ricorda nulla del suo ricovero. In quei momenti lo stato clinico, l’ansia di una situazione che porta ad isolarti hanno innescato emozioni – come egli stesso ha raccontato – che hanno avvolto i ricordi di quei momenti nella nebbia.

Era il 9 gennaio e da quello che gli è stato raccontato, arrivò in ospedale con febbre alta, con pressione e glicemia dai valori piuttosto sostenuti, eppure come gli hanno riferito i medici, se è riuscito a vincere la battaglia è per via della tempestività del ricovero.

“La mattina prima ero andato a fare il tampone, da solo, senza dire niente a nessuno dei miei cari per non allarmarli. Ma io sentivo che qualcosa non andava…”. Quando ho ricevuto il risultato del tampone è stato mio genero, che è un infermiere, a decidere che non andava perso neanche un minuto. E poi tutto si fa confuso… Fin quando non comincio pian piano a riprendermi e i ricordi dei miei compagni di viaggio si fanno nitidi e dolorosi al tempo stesso”.

Lo sconforto che lo accompagna ripensando a chi non è più qui, fa sì che con più sgomento il medico si chieda come è possibile che la gente non abbia cura per sé e per gli altri di indossare la mascherina correttamente, di uscire solo per l’indispensabile. Rivolgendosi anche ai suoi coetanei, non sempre consapevoli di ciò che vuol dire…

Abbiamo chiesto al medico cosa può dirci della campagna di vaccinazione e la sua risposta è stata chiara: “Ciascuno deve affidarsi al proprio medico di famiglia, perché ci conosce dal punto di vista clinico e può consigliarci per il meglio”.

Gli abbiamo anche chiesto cosa ci lascerà la pandemia, quale insegnamento, quale visione dell’umanità e del mondo… Egli ha risposto: “La necessità di credere nella scienza. Mentre invece, ancor oggi, dopo tutto questo, molti pensano di poter fare di testa propria”.

Francesca Fisichella

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