Roma e Napoli falliscano come è fallita Catania - QdS

Roma e Napoli falliscano come è fallita Catania

Carlo Alberto Tregua

Roma e Napoli falliscano come è fallita Catania

giovedì 25 Aprile 2019

Non condividiamo molte delle cose che dice Matteo Salvini, ma concordiamo sulla sua linea di fermezza relativa alla questione dell’immigrazione. Qui, oggi, ci vogliamo occupare, però, dello stato di insolvenza in cui si trovano molti Comuni degli ottomila italiani, soprattutto ubicati nel Mezzogiorno.
Il Comune di Catania è “fallito”, con la dichiarazione di dissesto deliberata dal Consiglio comunale il 12 dicembre 2018. A farne le spese sono i fornitori, che vantano crediti stimati complessivamente in oltre 200 milioni e dovranno sopportare una decurtazione oscillante tra il 40 e il 60 per cento.
Naturalmente i crediti privilegiati si sono salvati e, prima di tutti, gli stipendi e i Tfr dei dipendenti che, evidentemente, sono considerati “superiori” a quelli dei dipendenti delle imprese che vantano crediti: una disparità inaccettabile, in palese violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Ma la malattia del Comune non è in via di guarigione perché il sindaco Pogliese non sa come quadrare il bilancio del 2019.
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Sono saltati tanti altri Comuni, giustamente, perché quando un sindaco non è capace di far tornare i conti deve essere penalizzato. Soltanto che la legge non prevede lo scioglimento degli organi politici, in caso di dissesto, come sarebbe giusto che fosse, e neanche lo “scioglimento” dei dirigenti che hanno contribuito a portare in default il loro Comune, per cattiva amministrazione, per inefficienze e sovente per corruzione.
L’allegra finanza di cui hanno abusato i sindaci in questi ultimi decenni è stata rivestita di una camicia di forza, prima larga e poi, via via, sempre più stretta, perché le finanze dello Stato non consentivano di elargire somme gravanti sul debito pubblico.
La stretta ha trovato impreparati quei sindaci che non sono buoni amministratori, come lo è qualunque padre di famiglia, con la conseguenza che i debiti si sono accumulati, prima tradotti in mutui e, dopo i giusti rilievi della Corte dei Conti regionale, sono arrivati al dissesto.
A quel punto i sindaci hanno cominciato a mendicare al Governo centrale per risolvere i problemi che non erano capaci di affrontare.
Di fronte a questo scenario, crudo ma evidente, ad alcuni componenti del Governo centrale è venuta la brillante idea di salvare l’amministrazione comunale di Roma, indebitata per 16,753 miliardi di euro, come se la Capitale dovesse essere privilegiata rispetto ad altre amministrazioni.
Questo privilegio a favore di chi non è stato capace di amministrare l’Urbe non è accettabile ed ecco perché concordiamo per la seconda volta con Matteo Salvini sul suo stop a varare una norma a favore della Capitale, trascurando tutte le altre amministrazioni che sono nella stessa condizione: Napoli, per esempio, i cui debiti ammontano a 2,6 miliardi.
Hanno fatto fallire Catania, ma Roma e Napoli, feudi dei pentastellati, non si toccano. Questo non è ammissibile né tollerabile: o tutte o nessuna. Ma intanto la “Città dell’Elefante” è fallita e nonostante la nomina da oltre tre mesi dei tre commissari non si vede il momento in cui la parte dei crediti liquidabili sarà pagata, con aumento delle sofferenze.
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In Consiglio dei ministri è prevalsa la linea leghista che ha rettificato la cosiddetta “norma Salva-Roma”, con la promessa che rientrerà in un provvedimento ad hoc che riguarderà anche Catania. Una scelta di giustizia per evitare lo squilibrio tra i Comuni in dissesto che si salveranno e quelli che sono andati a picco.
Questo è un Paese di pagliacci, che fanno ridere quando non vogliono, anche se verrebbe da piangere per come non sono adusi a comportamenti seri, eticamente corretti e rispettosi dei principi di equità e giustizia, nonché ai principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità.
Il popolo, in nome del quale l’establishment compie le più efferate iniquità, è vittima e non dante causa, con la conseguenza che è quello che subisce i danni maggiori da una classe dirigente che ha perso la trebisonda, che non sa dove andare e ondeggia da mane a sera, giorno dopo giorno.
La responsabilità della classe Politica, di quella Burocratica e dell’altra Dirigente è palese: non sappiamo l’entità dei danni che causerà a chi viene dopo di noi, sappiamo che li causerà!

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