Senna e l'eterno 1 maggio, 27 anni fa la morte del pilota diventato divinità - QdS

Senna e l’eterno 1 maggio, 27 anni fa la morte del pilota diventato divinità

Luigi Ansaloni

Senna e l’eterno 1 maggio, 27 anni fa la morte del pilota diventato divinità

sabato 01 Maggio 2021

Chi ha vissuto Ayrton Senna Da Silvia, chi più chi meno, sa il perché se ne parli ancora dopo 27 anni. Non potrebbe essere altrimenti, tanto che a distanza di tanto tempo sembra quasi naturale farlo

Scrivere di Senna il 1 maggio, in queste ore, è un po’ come pretendere di piazzare il carro davanti ai buoi. In realtà, è lui che ci ha scritti tutti, in un certo senso.

Se c’è qualcuno nella storia degli sport a motori che ha saputo annusare, sbandierare, accarezzare e insomma scovare sul serio la (e le) società del nostro tempo, al di fuori dei circuiti, dell’odore dell’olio da motori e delle gomme, quello è stato lui.

Con i guantoni e con gli occhi lo aveva fatto prima di lui Mohammed Alì, che ha stanato presto i nostri stomaci, le periferie delle emozioni e degli animi, in una lucida ed ebbra autopsia dell’essere e della metamorfosi di quegli anni.

Lo ha fatto anche, in un modo forse meno affascinante ma certamente più incendiario, Diego Armando Maradona: cifra diversa, qualità meno lucida, ma prorompente nella sua forza illuminante, che ha dato una voce agli invisibili, enucleato le nostre minime e siderali meccaniche di senso, genio, affetto e nevrosi.

Tutto questo, dando calci ad un pallone. Senna ha fatto tutto questo e anche di più: un pilota fondamentalmente anarchico dallo sguardo perennemente triste e pensieroso divenuto da uomo a pilota, da pilota a leggenda, da leggenda a divinità.

Chi ha vissuto Ayrton Senna Da Silvia, chi più chi meno, sa il perché se ne parli ancora dopo 27 anni. Non potrebbe essere altrimenti, tanto che a distanza di tanto tempo sembra quasi naturale farlo, scontato.

Senna ha rappresentato in un certo senso tutti quelli che hanno avuto il privilegio di vedere quel casco giallo-nero su una macchina di Formula Uno, che lo hanno visto vincere e vincere ancora, e poi infine andarsene via in una curva, il 1 maggio del 1994 a Imola.

Ayrton era l’incarnazione vivente di quello che ognuno di noi vorrebbe essere almeno una volta, un giorno, nella vita, nel bene e nel male. Un genio in quello che faceva, bello, adorato (e anche odiato) dalle donne e dagli uomini, un affabulatore, affascinante quando parlava al pubblico, ai giornalisti, una sorta di divinità dentro e fuori dalla vettura.

Ma anche umano, umanissimo, perfino troppo: rancoroso, cattivo, non ci ha pensato due volte a rischiare la propria vita a Suzuka, nel 1990, per rendere pan per focaccia a Prost, buttandolo fuori a 300 orari alla prima curva del gran premio del Giappone, proprio come aveva fatto il francese con lui dodici mesi prima.

E non c’entrava il campionato, il mondiale, la gloria, i soldi. Semplicemente, come scrive Leo Turrini nel suo libro ricordo, uscito poco tempo fa, il Dio di Ayrton, che lui amava e venerava, era quello dell’antico Testamento. Occhio per occhio, dente per dente.

Ci sono stati piloti grandiosi, eccezionali, ma gli è sempre mancato qualcosa, per ergersi al livello di divinità assunta dal brasiliano non solo dopo la sua morte, ma anche prima. Schumacher, ad esempio, in pista probabilmente è stato tanto grande quanto Senna, ha anche vinto (molto) di più, ma la sua grandezza finiva lì.

Lo stesso Hamilton, che ha battuto e che continua a battere i record e che proprio a Senna si ispira, ma nemmeno lui si sogna di mettersi davanti a lui. In nessun senso.

Quando il paddock smontava baracca e burattini, Michael, la sua immensa luce, si spegneva. E’ rimasto, prima e dopo, “solo” un pilota incredibile, uno spietato cannibale.

Anche Prost, la nemesi di Senna, è ricordato più per lo scontro epico con il brasiliano, più che per la persona o per il grandioso pilota che è stato il transalpino.

Forse Gilles Villeneuve, che ha vinto quasi niente di formula uno, ha assunto negli anni dei contorni da leggenda per quello che ha saputo rappresentare anche fuori dai circuiti, ma Gilles era troppo “folle” e istintivo, per rappresentare al meglio una generazione, la sua, e anche quelle future, in un certo senso.

Senna era uno sciamano. Era grande fuori quanto lo era dentro la sua macchina. Ha saputo, e in un certo senso continua a fare, anche a vent’anni dalla sua scomparsa, rappresentare alla perfezioni il sogno di tutti noi. Non solo pilota, ma divinità.

Lui lo sapeva, e ci giocava sopra questo. Immaginava di vedere Dio sopra il suo casco, spiegava che era andato a sbattere perché ad un certo punto, con un minuto e mezzo di vantaggio sul secondo, non si sentiva più lui, non capiva più come e perché stava guidando. Mistico, quasi visionario.

Anzi, senza quasi. Senna era uno che dopo la fine della stagione fuggiva in Brasile per tre mesi e mezzo (lo aveva scritto nel contratto) per stare con amici e parenti nella sua tenuta ad Angra Do Reis, la sua tana segreta, dove staccava con il resto del mondo. Poi, a fine febbraio, tornava e provava la sua nuova macchina, giusto 2 o 3 volte, il tempo per capire, mentre tutti i suoi colleghi avevano già macinato migliaia e migliaia di chilometri nel frattempo. Lui, non ne aveva bisogno.

Prost, dopo la morte di Ayrton, disse: “Non sapeva mettere la macchina a posto e non perdeva molto tempo a farlo, ma quando il mezzo lo assecondava, era semplicemente imbattibile”.

Non che Senna non fosse un perfezionista: passava ore e ore in pista, con i meccanici, ma la sua vera unicità era la guida, la purezza dello stile, la sensibilità. Era capace di passare per 70 volte nello stesso identico punto durante un giro veloce, specialità nella quale era ed è assolutamente inarrivabile.

Come lo era sulla pioggia: Donington 93, con 7 sorpassi al primo giro sotto la pioggia, è la gemma più stupefacente della storia dei Gran Premi.

Chi c’era, quel 1 maggio, ricorda ogni attimo di quel giorno. Anche, soprattutto, a distanza di 27 anni.

Sarebbe piaciuto a tutti vedere Ayrton, coi capelli lunghi, magari bianchi (oggi avrebbe 61 anni) e lo sguardo ancora più insolente del solito, dare dei giudizi su questo e quello, sentire le sue parole, anche se forse, probabilmente, dopo il suo ritiro sarebbe semplicemente sparito.

A volte lo immaginiamo ancora vivo, sperduto, magari nella sua isola, in Brasile, dove lo si può ancora immaginare giocare con i suoi aeroplani telecomandati, o con la sua tuta da sci nautico tra le onde di quel paradiso.

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