Bisogna essere uomini di Stato per essere eroi, per dare un valore al proprio sacrificio, per aver fatto il proprio dovere con dignità e abnegazione?
Bisogna essere uomini di Stato per essere eroi, per dare un valore al proprio sacrificio, per aver fatto il proprio dovere con dignità e abnegazione?
È la storia di Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile di via Giuseppe Federico Pipitone, un nome di strada lunghissimo, come il tempo che è passato, 41 anni, dalla prima strage di Mafia a Palermo con il tritolo in pieno centro che ci faceva somigliare a Beirut. Stefano era quello che potremmo definire un buon padre di famiglia, anche se la provvidenza non gli aveva mandato figli, ma aveva una nipote, Lucia ottima dirigente regionale in seguito, che era come una figlia, si era trasferita dal paese per studiare in città e viveva con Stefano e sua moglie nel locale che i palazzi degli anni cinquanta destinavano ad abitazione del portiere, un semicantinato un po’ umido.
Veniva da un paese dell’interno, Geraci, e come molti aveva trovato lavoro come portiere in città. Palermo rispetto a molte grandi città d’Italia ha condomini con portierato, eco di un’allure perduta insieme ai fasi nobiliari di una città delabrè e colma solo di immondizia. Stefano era un gran lavoratore e dotato di una umanità speciale, e lo posso affermare da testimone, educato e disponibile con tutti, in un condominio particolare abitato da colonnelli, giudici e politici. Non era deferente, era un uomo di montagna, ma gentile anche se magari qualche sgridata ai ragazzi più monelli del palazzo ci stava. Ma sempre con un tratto umano molto forte. Era lì come tutte le mattine ad aspettare che il dott. Chinnici, giudice istruttore a Palermo, scendesse dal suo appartamento e salisse in macchina. Era fine luglio e le scuole erano finite, in caso contrario ci sarebbe stato un via vai di ragazzi che uscivano dall’androne per recarsi a scuola, tra cui il figlio del giudice Giovanni, o il sottoscritto che temeva le interrogazioni in latino del magistrato in portineria più di quelle dei professori.
Stefano accompagnò alla macchina Rocco Chinnici, come ogni mattina per dargli un avvio di buon lavoro, un lavoro che Stefano comprendeva quanto fosse gravoso. Stefano Li Sacchi saltò in aria per l’enorme quantità di esplosivo, insieme al giudice, e a due carabinieri della scorta. Tutti hanno ricevuto la medaglia al valore, Stefano no. La prefettura non lo ha ritenuto idoneo. Per le umili origini di contadino delle madonie? Per il lavoro che svolgeva ritenuto modesto? Perché Stefano merita di essere una vittima sacrificale di serie B? Se fosse stato accorto e prudente, visti i tempi di Mafia, si sarebbe fatto i fatti propri, come fanno tutti a Palermo, magari stando un po’ a distanza, dentro il palazzo, forse si sarebbe salvato. No, lui stava accanto al suo condomino, il magistrato Rocco Chinnici. Probabilmente aveva delle preoccupazioni, ma sentiva che quello era il suo dovere di custode.
Custodiva una persona che stimava del suo palazzo. Ma per lo Stato, per il Ministero degli Interni, Stefano li Sacchi non è un eroe civile, ma una vittima collaterale, come si dice in tempo di guerra. La nipote Lucia Li Sacchi ha di nuovo scritto al Presidente Mattarella, che conosceva bene quel Palazzo, a pochi metri dal suo, e dal luogo dove fu brutalmente ucciso, in via Libertà alla fine di via Pipitone suo fratello Piersanti. Ha chiesto al Presidente di intervenire, per ristabilire onore e dignità ad una delle pagine più gravi della Repubblica. Alle spalle di via Pipitone c’è oggi via Giuseppe Insalaco, intitolata all’ex sindaco di Palermo anch’esso assassinato lì. In pochi metri venne uccisa dalla mafia buona parte delle istituzioni, una specie di triangolo della morte. Lucia è una ragazza gentile ed educata come suo zio, ma determinata, e si farà dare ragione. Se prima meglio per la nostra particolare Repubblica.
Cosi è e se vi pare.