Un nuovo concetto di Umanesimo - QdS

Un nuovo concetto di Umanesimo

Luigi Patitucci

Un nuovo concetto di Umanesimo

mercoledì 09 Novembre 2022

Le riflessioni di Silvia Giuffrida, architetto, che svolge la propria attività professionale e di ricerca presso SeminArchitettura Studio_collettivo

In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato(e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di assolvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto. Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Silvia Giuffrida,  architetto, svolge la propria attività professionale e di ricerca presso SeminArchitettura Studio_collettivo. Per l’appunto, un collettivo che si occupa di progettazione architettonica, paesaggio, rigenerazione urbana e design, referente Assoverde Regione Sicilia. Nel 2018, co-fonda NaCl team, con il quale vince svariati premi tra cui: il premio Gardenia al Radicepura Garden Festival 2019 con il progetto Come back to Itaca, ed il Premio Nib Top 10 Paesaggio Under 35.

Silvia Giuffrida

Luigi Patitucci. Bene Silvia, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi……, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

Silvia Giuffrida. Dopo il recente periodo di pandemia, l’obiettivo dell’esercizio auspicato dovrebbe essere proprio porre nuovamente al centro del dibattito il concetto di comunità e socialità, potenziare le relazioni dirette tra gli individui e non solo attraverso il ricorso all’ambiente virtuale. Per portare le persone a poter essere più partecipi, gli obiettivi da perseguire, a mio modo di vedere, dovrebbero essere almeno due: Il primo, di natura strutturale, è intrinsecamente dipendente dai meccanismi di vita della società attuale, noi designer dovremmo poter creare delle dinamiche atte a capitalizzare il tempo libero, da poter dedicare ad Altro (con la A maiuscola!), questioni agganciate alle passioni e alle potenzialità degli individui;  il secondo è legato alla capacità, da parte degli addetti ai lavori, di poter rendere più attrattivi gli spazi pubblici, tramite eventi ed azioni collegate tra loro, allo scopo di innescare la produzione di emozioni legate alla memoria di esperienze vissute, o da poter vivere, agganciandole, a filo doppio, alle tematiche proprie del mondo naturale e della sostenibilità, ambientale e sociale.

L.P.  Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

S.G.  Inizialmente verrebbero sollevate delle obiezioni di natura economica ed organizzativa, come molte delle iniziative che vengono presentate. Non vi è dubbio, però, che alla lunga, l’azione dovrebbe essere accolta in modo positivo. Direi che per tutti noi, e non solo per gli enti competenti, sarebbe quasi un dovere, quello di accettare positivamente tali azioni. Speculando sul tema del tempo e delle possibilità, all’opposto di questa rovinosa condizione, sembrerebbe scorgersi soltanto una società che, non potrebbe che conquistare l’alienazione totale dei suoi individui e, di conseguenza un nefasto e sfrenato elogio dell’individualismo.

L.P.   Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

S.G.  Al giorno d’oggi la problematica comune, che sta alla base della pianificazione del territorio, trovo che debba ricercarsi nell’obsolescenza di molti dei nostri piani regolatori. In contrappunto, con sempre maggiore forza e caratteri esplicativi e ridondanti propri di una sorta di “moda”, è sorto il concetto di smart city. Quindi, se da un lato trovo che gli attuali PRG rispondano a delle problematiche estremamente datate, rispetto alle esigenze odierne della utenza urbana, dall’altro vedo che stiamo intraprendendo, fin troppo rapidamente, una direzione che se non ben controllata, rischia di spostare il focus della pianificazione dal capitale umano a quello tecnologico. Pertanto, l’invito ed insieme l’augurio che posso esprimere non può che essere connesso alla considerazione assoluta della centralità del cittadino, dello scenario ambientale e naturale in cui esso debba muoversi e sviluppare la propria esistenza, scevra da punti di conflitto. Ritrovare quindi, il concetto di umanesimo, evitando di mitizzare il potere della tecnologia e delle macchine ad essa connesse.

L.P.  Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

S.G. L’idea stessa del concetto di vita è legata intrinsecamente ai termini di “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità” ed “impermanenza”. Tenendo presenti questi concetti durante il processo creativo, qualunque azione venga messa in campo o, qualsiasi risultato, non possono che generare benefici. Il concetto di contesto urbano, di fatto, è un’emanazione della vita collettiva stessa. Una vita che, ad un certo punto della nostra storia, ha avuto la necessità di doversi distaccare dalla natura per poter conquistare un maggiore senso di protezione e di comodità, ma che mai potrebbe rinunciare al suo intimo richiamo ed la sua necessaria presenza.

L.P. Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

S.G. Credo che uno dei problemi fondamentali che produce una visione distorta ed incompiuta di quello che ci circonda il distacco, sempre più ampio, tra le tempistiche del progetto e la sua realizzazione, si connesso alla quantità smisurata di tempo che viene dedicato alle azioni di “disegno”. In particolare, potrei dire che, se guardiamo una città dall’alto, ci accorgiamo subito come il suo nucleo originario, il nucleo storico, risulti ben compatto, dunque ben leggibile ed individuabile, da qualsiasi individuo. In contrasto con quanto prodotto nell’ultimo secolo, quello che lo circonda, si risolve in tanti brani disomogenei di città che, raramente, dialogano tra loro, persino all’interno di questi brani, molto spesso non vi è una logica di alcuna natura, neanche a cercarla, a tenere insieme due quartieri confinanti. Molto spesso vengono messi a terra dei progetti che cercano di dare delle risposte a delle problematiche attuali, ma che portano le conseguenze di tempi di realizzazione lunghissimi, tali da renderli già sin dalla loro implementazione nel tessuto urbano, obsoleti.

L.P.  Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno? S.G. L’Italia è da sempre un paese di talenti e fonte d’ispirazione per l’intero pianeta, specie nel mondo dell’arte e dunque della cultura. Quindi si, i design lab possono e devono essere sia un punto d’informazione che di confronto e dialogo. L’arte è vita ed attrazione.

L.P. Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla città e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu che sei libera professionista e sei condannata a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?

S.G. Già vedo in molti dei miei coetanei un avvicinamento radicale ai concetti di sostenibilità, resilienza, rigenerazione urbana, ecodesign ecc. La nuova generazione, verrà bombardata da un’infinità di nuovi stimoli, e non ho dubbi che essi riusciranno a generare un mondo, certamente migliore,  più ecologico e consapevole, ma soprattutto carico di elementi di empatia.

L.P. Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?

S.G.  Immagino che da sempre l’obiettivo della mente umana possa essere legato ad  una costante ricerca dell’elemento di sorpresa, di novità e, lo sarà nel futuro, esattamente come lo è già stato in passato. Quello viene a modificarsi è il contesto che accoglie l’individuo, ormai sempre più fluido. Il che, non significa necessariamente, dover guardare sempre avanti, ma poter osservare quello che ci circonda, abbattendo di fatto la quarta dimensione.

L.P. La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

S.G. Dalla terra veniamo e alla terra ritorneremo….. che, senza volersi dipingere come delle cassandre, potrebbe anche essere letto come dalla natura veniamo e alla natura torneremo. La speranza è che tra questi due estremi, la natura possa essere sempre più presente nella nostra esistenza.

L.P. “In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.   Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

S.G. Il concetto di genius loci  è strettamente legato alla mia formazione e, deformazione, professionale. Non credo che possa esistere una buona proposta di progetto senza la piena considerazione preliminare di certi concetti basilari, essenziali, nell’azione creatrice. Proprio per questa loro genericità, essi  sono concetti così tanto flessibili ,da poter essere tranquillamente integrati in qualsiasi contesto, sia esso fisico, metafisico, virtuale, atemporale ecc. e, ancor più potrei dirlo, in ragione della loro archetipicità.

L.P. Conosco il tuo designer preferito, sono io.

S.G. Ahahahahah…………

L.P. Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.

S.G.  Gae Aulenti, una donna poliedrica, Architetto e Designer, che ha aiutato ad abbattere molti pregiudizi.  

Gae Aulenti
Tour, Gae Aulenti, 1993, Vitra Design Museum

L.P. Cosa puoi dirmi del tuo approccio di metodo?

S.G. Tutte le soluzioni progettuali iniziano immedesimandosi, per immersioni progressive, nel punto di vista del fruitore finale, su cosa potrebbe ‘provare’ e ‘vedere’, rispettando le sue necessità e le funzioni del progetto. Il tutto accompagnato da un insostituibile dose di rispetto verso i luoghi, la materia e la natura coreografica e poetica di cui fanno parte. Insomma, Empatia Q.B.

L.P. Il tuo oggetto preferito?

S.G. La sedia a dondolo Shell chair, di Charles e Ray Eames per Vitra, del 1948.

Shell Chair, Charles & Ray Eames, Vitra, 1948.

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