Verso la “secessione” della sanità italiana, la mala gestio rischia di diventare cronica - QdS

Verso la “secessione” della sanità italiana, la mala gestio rischia di diventare cronica

redazione

Verso la “secessione” della sanità italiana, la mala gestio rischia di diventare cronica

Mauro Seminara  |
mercoledì 17 Aprile 2024

Nino Cartabellotta (Gimbe): “La maggiore autonomia provocherà una fuga dei professionisti nelle Regioni più ricche”

In corso di esame alla Camera dei deputati, in prima Commissione Affari costituzionali, c’è il disegno di legge costituzionale “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. Il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge d’iniziativa governativa il 23 gennaio 2024 e si prevede che la riforma possa entrare in vigore già entro la fine dell’anno in corso. Tra le 23 materie sulle quali le regioni possono richiedere maggiori autonomie c’è anche la sanità.

Trasversale percezione negativa da parte di enti e istituti

La riforma costituzionale ha innescato un vivace dibattito in Italia, e vede una trasversale percezione negativa da parte di enti e istituti estremamente diversi tra loro ma in accordo su molti aspetti critici del Ddl applicato alla salute pubblica e indirettamente alla coesione nazionale. Secondo la federazione sindacale Cimo-Fesmed, sigle del comparto sanitario, “l’autonomia differenziata rappresenterà l’ennesimo colpo, forse quello definitivo, a ciò che resta di nazionale del Servizio sanitario pubblico”.

La riforma è collegata alla manovra di finanza pubblica. Dalla nota della quinta Commissione programmazione economica e bilancio che accompagna il testo del Ddl si legge: “Con riguardo alla eventualità che le Regioni con bassi livelli di tributi erariali maturati nel territorio regionale possano avere maggiori difficoltà ad acquisire le funzioni aggiuntive, viene rappresentato che non può essere effettuata alcuna valutazione ex ante. Viene quindi affermato che ciascuna valutazione in termini di impatto potrà essere svolta solo al momento della definizione dei Lep e delle risorse finanziarie occorrenti e sulla base delle singole iniziative regionali”. I Lep, livelli essenziali di prestazioni, non hanno ancora una griglia di valutazione sistemica e perché vengano definiti ci sarà da attendere fino al 2025, quando la riforma potrebbe già essere in vigore.

Già parzialmente autonome dalla riforma del Titolo V della Costituzione attuata nel 2001, la maggiore autonomia in ambito salute pubblica della riforma “autonomia differenziata” consente alle regioni che intendano accedervi un radicale arbitrio sulla gestione delle contrattazioni del personale medico e infermieristico, delle borse di studio e delle specializzazioni, dei rapporti con le università e anche sulla determinazione di tariffe per prestazioni sanitarie agevolate per i residenti e non agevolate per quanti vi accederanno, costretti da Livelli essenziali di assistenza (Lea) inadeguati nelle regioni di provenienza.
Aspetto, quest’ultimo, che potrebbe spostare ancora più ingenti risorse economiche dalle regioni del sud Italia verso alcune regioni del nord del paese. La Corte dei Conti ha stabilito che la mobilità sanitaria ha già spostato, in appena un decennio, 14 miliardi di euro dalle regioni del sud verso quelle del nord. Questo flusso emorragico di denaro pubblico potrebbe quindi aumentare nel corso dei prossimi anni, precludendo ulteriormente le possibilità di raggiungimento degli obiettivi Lea nelle regioni già “povere” come la Sicilia.

Secondo la federazione sindacale Cimo-Fesmed, maggiori risorse economiche alle regioni che già vantano livelli più elevati del servizio sanitario, e la facoltà concessa dal Ddl di maggiore autonomia nella contrattazione del personale o nella gestione delle borse di studio e delle specializzazioni, in ambito sanitario provocherà – oltre alla mobilità dei cittadini che necessitano di cure mediche – anche la migrazione dei professionisti sanitari verso le regioni più ricche.

Nino Cartabellotta (Fondazione Gimbe) audito in Commissione alla Camera

Il 26 marzo, in Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, alla presenza del primo firmatario del disegno di legge costituzionale, il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, è stato ascoltato in audizione informale Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Anche secondo il dottor Cartabellotta, contattato dal Quotidiano di Sicilia, “la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo ulteriormente il capitale umano del Mezzogiorno; l’autonomia nella definizione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia”.

“Senza contare – prosegue il presidente della Fondazione Gimbe – che tutto questo si inserirebbe in un contesto di grave crisi del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) che condiziona negativamente la vita quotidiana delle persone, in particolare delle fasce socio-economiche più deboli: interminabili tempi di attesa per una prestazione sanitaria o una visita specialistica, necessità di ricorrere alla spesa privata sino all’impoverimento delle famiglie e alla rinuncia alle cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, diseguaglianze regionali e locali sino alla migrazione sanitaria”.

Nel 2022 l’aspettativa di vita di un siciliano è di 2,8 anni in meno

L’Istat ha rilevato nel 2022 che l’aspettativa di vita di un siciliano è di 2,8 anni in meno rispetto ad un residente della provincia autonoma di Trento. Secondo i dati del Ministero della Salute, a fronte di una media Ocse di 9,9 infermieri ogni mille abitanti, la Sicilia ne ha appena 3,7. La carenza di personale per la sanità siciliana ha inoltre raggiunto un deficit di 1.500 medici e la Regione Siciliana ha pubblicato un bando per reperirne all’estero, anche fuori area Unione europea.

In questo scenario, fatto di liste d’attesa anche di un anno per un esame specialistico, di aspettative di vita ridotte e di cittadini che rinunciano alle cure mediche per quella salute il cui diritto è sancito dalla Costituzione, si innesta la questione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e dei Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP) che dovrebbero regolamentare l’autonomia che verrebbe concessa alle regioni che ne faranno richiesta. Ma anche qui, stando alle audizioni rese dagli esperti in Commissione affari costituzionali ed alle testimonianze raccolte dal Quotidiano di Sicilia, la situazione è poco chiara ed ancor meno rassicurante.

Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe

“Diseguaglianze esistenti cresceranno favorendo l’avanzata del privato”

Nino-Cartabellotta
Nino Cartabellotta

La Fondazione Gimbe ha avviato da diverso tempo la campagna “Salviamo il SSN”. Fondazione indipendente già nota all’opinione pubblica, gode di grande considerazione anche dagli istituti dello Stato. Il disegno di legge costituzionale sull’autonomia differenziata ha ricevuti marcate critiche da Gimbe, che sono state ribadite con due specifici report. Il secondo report “L’autonomia differenziata in Sanità” è stato pubblicato in concomitanza della sua esposizione resa in Commissione Affari costituzionali, alla Camera dei deputati, il 26 marzo da Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Abbiamo quindi intervistato il professor Cartabellotta per comprendere meglio alcuni aspetti del Ddl e delle possibili conseguenze.

Ci può chiarire la criticità dei diversi “Livelli Essenziali” della Autonomia differenziata in Sanità?
“Nonostante la definizione dei Lea nel 2001 e il loro monitoraggio annuale, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali anche con l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti. Siamo oggi davanti ad una ‘frattura strutturale’ Nord-Sud che compromette qualità dei servizi sanitari, equità di accesso, esiti di salute e aspettativa di vita alla nascita, alimentando un imponente flusso di mobilità sanitaria dal Sud al Nord. In questo scenario il Comitato istituito per definire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ha ritenuto di non dover assolvere tale compito in materia di salute, perché esistono già i Lea ai quali tuttavia non corrisponde alcun fabbisogno finanziario. Infatti, il riparto del Fondo sanitario nazionale, con cui lo Stato trasferisce le risorse alle Regioni, è indipendente dal raggiungimento o meno dei Lea e avviene secondo criteri di popolazione residente, in parte pesata per età. Si tratta di una pericolosissima scorciatoia rispetto alla necessità di garantire i Lep secondo quanto previsto dalla Carta Costituzionale, perché senza definire, finanziare e garantire in maniera uniforme i Lep in tutto il territorio nazionale è impossibile ridurre le diseguaglianze regionali. Di conseguenza, è evidente che l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le diseguaglianze già esistenti”.

Stiamo quindi parlando di concorrenza tra regioni nel SSN come fossero offerte del libero mercato?
“Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie, indebolendo ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a statuto speciale. Inoltre le maggiori autonomie sul sistema tariffario rischiano di aumentare le diseguaglianze nell’offerta dei servizi e favorire l’avanzata del privato. Le Regioni del Centro-Sud saranno sempre più dipendenti dalle ricche Regioni del Nord con un effetto paradosso: il massimo incremento della mobilità verso le regioni settentrionali rischia di peggiorare l’assistenza sanitaria per i residenti del Nord del Paese. In tal senso una ‘spia rossa’ si è già accesa in Lombardia che nel 2021 si trova sì al primo posto per mobilità attiva (€ 732,5 milioni), ma anche al secondo posto per mobilità passiva (-€ 461,4 milioni): in altre parole un numero molto elevato di cittadini lombardi va a curarsi fuori Regione”.

La paventata mobilità di utenza e di personale, basandoci sul testo del disegno di legge, che ripercussioni ulteriori può avere sul rapporto tra il Sistema sanitario nazionale e la sanità privata e privata convenzionata?
“In un contesto di indebolimento della sanità pubblica si è già registrato un aumento dell’offerta privata per soddisfare i bisogni di salute: nel 2022 il numero di strutture sanitarie private accreditate sono quasi la metà di quelle che erogano l’assistenza ospedaliera (48,7%) e il 59,1% di quelle per la specialistica ambulatoriale. E sono prevalentemente private le strutture per l’assistenza residenziale (85%) e semiresidenziale (72,3%) e quelle riabilitative (78,6%). E l’avanzata non si fermerà. Le maggiori autonomie sul sistema tariffario, di rimborso, remunerazione e compartecipazione rischiano di rendere i sistemi sanitari regionali delle entità con regole proprie, sganciate anche da un monitoraggio nazionale, agevolando ancor più il privato”.

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