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Codice Barbie: il cinema che ha ancora un domani

redazione

Codice Barbie: il cinema che ha ancora un domani

Giuseppe Paternò Raddusa  |
sabato 06 Aprile 2024

Da Sofia Coppola a Paola Cortellesi, il cambiamento dietro la cinepresa: “Qualcuno si è accorto che le donne hanno bisogno di rivedere le loro storie e che questo interessa anche agli uomini”

Rullo di microfiche. Settembre 2023: “Priscilla” di Sofia Coppola, ispirato alle memorie di Priscilla Presley scritte insieme a Sandra Harmon e nelle sale dalla scorsa settimana, vince a Venezia la Coppa Volpi per la sua interprete, Cailee Spaeny.

Rullo di microfiche. Durante la lavorazione del film, il budget è così risicato che Sofia Coppola deve utilizzare del footage da uno spot da lei girato anni prima, con un’attrice che di spalle somiglia alla Spaeny, perché non può permettersi un giorno in più di riprese a Los Angeles.

Dice: sei Sofia Coppola, una che ha vinto un Oscar, un Leone d’Oro e un premio alla regia al Festival di Cannes. Sei figlia di Francis Ford Coppola – che, a onor del vero, non è uno degli autori più graditi dalle case di produzione, ma questa è un’altra storia. Sei la regista di cinema d’autore più celebrata del pianeta. Eppure per portarti a casa una scena devi riciclare la pubblicità di un orologio che hai fatturato nel 2018. Dice: accade a tanti registi e produttori maschi, di confrontarsi con budget risicati e piani di produzione da combattimento. Sarà.

Rullo di microfiche. Persino i piccioni e i morti, a momenti, hanno pagato un biglietto per “Barbie”, di Greta Gerwig. 1,4 miliardi di dollari di incassi in tutto il mondo e il miglior film al botteghino nella storia della Warner Bros ne hanno fatto forse il titolo più importante del 2023.

Rullo di microfiche. Quando vengono annunciate le candidature all’Oscar, “Barbie” manca quelle “politicamente” più rilevanti, per un film del genere: la miglior regia, per Gerwig, e la miglior attrice, la scintillante (e bravissima) Margot Robbie. È un caso che l’Academy abbia snobbato le due figure più significative del film? Una che ne è l’autrice e la firma, e una che ne è il volto?

Gli anti-polemisti del polemista (il sottoscritto) iniziano già a berciare: eh, ma se stai sostenendo che le hanno snobbate in quanto donne, sbagli. La Robbie è stata scartata a favore di un’altra signora, la categoria è quella di “Miglior attrice”, e in effetti nel caso della Robbie è vero.
Le cinque nominate sono tutte identificate secondo il genere. Ciononostante fa strano che il più importante premio cinematografico di tutti i tempi, a fronte di una carovana così impressionante come “Barbie”, neghi al suo simbolo, alla sua protagonista, una segnalazione che sembrava praticamente scontata (Robbie si è comunque consolata, ammesso che basti, con la nomination come produttrice del film).

Sulla Gerwig, invece, c’è poco da aggiungere. È un segnale importante, se l’Academy preferisce candidarti come sceneggiatrice (insieme a Noah Baumbach) isolandoti da una categoria così importante, così ambita, così “maschio” come quella della regia. I soliti anti-polemisti del polemista: ah, non è che tutti i film diretti da donne devono vincere l’Oscar.

Per carità: ma se all’Oscar non candidano la regia di Gerwig per “Barbie”, con un linguaggio così dirompente (spoiler: il film non mi è piaciuto, ma non è un tema) da ficcarsi subito nel quotidiano dei meme e al contempo nei dibattiti sulle riviste specializzate, chi dovrebbero nominare?
Dice: che ti lamenti a fare, non sono stati mesi brutti, per il cinema “al femminile”. Sic!, ma non troppo. Qualcuno potrebbe tirare in ballo “Povere creature!”, il film di Yorgos Lanthimos che codifica nostri tempi come “Il favoloso mondo di Amélie” ha fotografato i primi anni Duemila. All’epoca c’erano l’ADSL e C6, oggi le storie di Instagram. All’epoca il sorriso timido di Audrey Tautou, oggi lo sguardo intenso di Emma Stone.

Siamo tutte e tutti Bella Baxter, creatura libera e in piena (ri)scoperta, uno dei personaggi effettivamente più folgoranti degli ultimi tempi, quando si parla di cinema d’autore-ma-anche-un-po’-mainstream di cui Lanthimos è portabandiera. L’Oscar a Emma Stone non l’ha negato nessuno, anche se va ricordato ai più che Lanthimos è un maschietto, così come lo sceneggiatore Tony McNamara e come Alasdair Gray, autore del romanzo del 1992 di cui il film è sapiente adattamento.

Però non si deve demordere: il trionfo di Paola Cortellesi con “C’è ancora domani” è ancora caldo, nelle memorie delle spettatrici e degli spettatori. Un film premiatissimo da pubblico e critica come “Anatomia di una caduta”, amato a Cannes e agli Oscar, è diretto da Justine Triet. Greta Lee ha fatto sognare migliaia di spettatori con l’amore rispettoso e silenzioso, tra New York e Seoul, del suo “Past Lives”. E, non di meno, un fenomeno-tsunami come il #metoo, legittimamente, ha aiutato le artiste sia a raccontare molestie e abusi, che a fortificare il proprio ruolo nell’industria. È cambiato qualcosa, allora, a prescindere dagli Oscar snubs di “Barbie”?

Ne parlo con Maria Cafagna, scrittrice e amica, per confrontarmi con lei sul tema reale di questo pezzo, e cioè se esiste un femminismo mainstream che lambisca il cinema – e non solo.
La risposta di Cafagna è secca: “Ci sono ancora un sacco di disparità tra uomo e donna”. Cioè? “In Italia solo il 58% delle donne ha un conto corrente intestato personalmente”, esemplifica lei, che di storie e dati come queste racconta nella newsletter che cura per Wired, “Roba da femmine”. Altro che femminismo mainstream, sibilo io.

“Ogni settimana ce n’è una”, continua Cafagna, “e non sono più sorpresa. O meglio: sono sorpresa, e forse dovrei smettere, dal fatto che nel nostro Paese esista un dibattito sul presunto pensiero unico, sul politicamente corretto. Faccende come quella del conto corrente ormai le diamo per scontate, sono così normalizzate che la maggior parte delle donne nemmeno se ne rende conto”.
Ma scusi Cafagna, “Barbie”, “Povere creature!” e “C’è ancora domani” hanno fatto un sacco di soldi, forse la cultura mainstream, pure quella regolata dai maschi, può cavalcare questa ondata!
“Cita film molto belli. Aiutati dal passaparola: almeno in Italia, i film più visti sono film prodotti di qualità, penso a Wim Wenders, che ha fatto cinque milioni di euro con ‘Perfect Days’, o Hayao Miyazaki con ‘Il ragazzo e l’airone’. Il pubblico dice: ‘spendo dei soldi se ne vale la pena’. Sono film prodotti da artiste e artisti diversi, realizzati con criterio”.

E da donne, quasi sempre. “Buongiorno principessa!”, esplode Cafagna. “Le donne sanno fare film, li hanno sempre saputi fare. E c’è voglia da parte del pubblico, maschile e femminile, di vedere titoli di qualità che, guarda caso, sono pensati, prodotti e realizzati anche da donne”.
Allora forse qualcosa è cambiato. “È cambiato molto. Ma io faccio un discorso di mercato: non parliamo di filantropi, ma di produttori e distributori che devono fare soldi. Qualcuno si è accorto che le donne hanno bisogno di rivedere le loro storie e i loro codici, e che questo interessa anche gli uomini: ‘Barbie’ e ‘Povere creature!’ non sono stati apprezzati solo dalle signore”.

C’è anche un tema produttivo ma anche di aderenza alle storie: penso a “La sala professori”, film tedesco diretto da un uomo, Ilker Çatalk, ma che ruota totalmente attorno a un personaggio donna, una professoressa delle medie interpretata da Leonie Benesch. Un film candidato all’Oscar come miglior film internazionale e ambientato in mezzo ai ragazzini sulle lacerazioni morali di un’insegnante che ha incassato in Italia un milione di euro e rotti e che forse, fosse uscito solo nel 2017, si sarebbero filati in quattro.

“Lo sguardo si adegua e si abitua”, mi fa eco Cafagna. “Se per tutta la vita hai visto film e serie prodotte, dirette e interpretati da maschi, il tuo sguardo si abitua e quando vedi una storia diversa la rifiuti. Quando l’occhio si allena a vedere una donna sullo schermo per più tempo, qualcosa cambia”.
“C’è ancora domani” non è passato invano, tra le grinfie dello spettatore medio. Maschio. “Paola Cortellesi”, conclude Cafagna, “è sui nostri schermi da oltre vent’anni. Schermi piccoli, grandi, sugli smartphone, dalle pillole web a Sanremo. Abbiamo imparato a volerle bene, ci siamo affezionati a lei. È come Fiorello, con la differenza che Paola Cortellesi è posizionata anche sul cinema. Solo che Fiorello, comunque un grandissimo artista, viene celebrato come il più grande entertainer d’Italia, lei no; e poi cadiamo dal pero quando Cortellesi fa 40 milioni. Ma lei c’è sempre stata, e che questo riconoscimento arrivi a cinquant’anni ci fa capire quanto stiamo indietro”.
In Francia sarebbe arrivato prima? “In qualsiasi Paese normale sarebbe arrivato prima”, puntualizza Cafagna.

E a me nella mente tornano alcune delle nostre attrici sul palco dei David di Donatello, a protestare, nell’anno del #metoo, contro le prevaricazioni machiste nell’industry nostrana. Da quel momento in poi, però, a parte movimenti robusti come quelli delle Amleta e le sporadiche interviste di attrici che hanno subito abusi da parte di figure di rilievo, il nostro cinema sul #metoo ha sempre preso posizioni non troppo definite.
“Non ha preso una posizione”, precisa Cafagna. “Se guardiamo le interviste dei registi più importanti, è tutto uno scagliarsi contro il politicamente corretto”.

Chissà cosa riserverà questo domani, per le donne che lavorano nel cinema in ruoli di potere – e non parlo solo di artiste, ma anche di produttrici, di story editor, di costumiste, scenografe, direttrici della fotografia. Io, che sono forse troppo legato al vile denaro, penso ancora a una Maestra come Sofia Coppola che scartabella vecchi hard disk, clicca sulla cartella SPOT e pesca una sua vecchia pubblicità per riciclarla in un film da presentare a Venezia. Que sera, sera.

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