Il lungo mistero del Consorzio tra mafie, ecco cos'è - QdS

Consorzio tra mafie, il lungo mistero tra business e “sostenibilità”. Balsamo: “Falcone aveva capito”

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Consorzio tra mafie, il lungo mistero tra business e “sostenibilità”. Balsamo: “Falcone aveva capito”

Roberto Greco  |
domenica 12 Novembre 2023

Il procuratore Antonio Balsamo ripercorre per il QdS la storia dei rapporti di collaborazione delle diverse mafie autoctone italiane, dai tempi di Falcone al 2023.

Il “Consorzio tra mafie“, un mistero di cui si parla da ben 40 anni. Era il 15 marzo 1991 quando Giovanni Falcone, durante un convegno pubblico al castello Utveggio di Palermo, lanciò il grido d’allarme dichiarando che “la materia dei pubblici appalti è la più importante” perché “consente di far emergere l’intreccio tra mafia e imprenditoria e politica” e poi tuonò “La mafia è entrata in Borsa”.

Fu questo, come affermerà il “ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra” Angelo Siino, a mandare in bestia diversi imprenditori legati a Cosa nostra quando disse che, per primo, “Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente Cosa Nostra”. Si trattò della prima grande trasformazione di uno dei sistemi criminali mafiosi italiani in quella che, nel tempo, fu poi indicata come la “mafia liquida”, quella che non agiva più dagli oscuri casolari seminascosti nelle campagne siciliane ma dai tavoli dei consigli di amministrazione, quella mafia che smise di inseguire l’imprenditoria ma ne diviene piatto goloso sia per l’enorme liquidità economica, derivante dal malaffare e in primis dal traffico delle sostanze stupefacenti, sia per le relazioni che uscivano dai confini nazionali e che le permisero, in pochi anni, di diventare riferimento economico in tutta Europa e non solo.

Il Consorzio tra mafie, il business all’origine

Socio in grado di suscitare interessi internazionali, perché da sempre “pecunia non olet”, Cosa Nostra dovette sin da subito fare i conti con il fatto che le altre mafie autoctone, al pari suo, avevano già iniziato, l’aggressione ai territori e ai patrimoni economici delle imprese del nord Italia.

Non possiamo non ricordare che negli anni ’80, a Torino, le famiglie catanesi dei Miano e dei Finocchiaro si rifornivano di droga da Angelo Epaminonda, detto il “Tebano” e successivamente la rivendevano alle ‘ndrine torinesi. Quando queste si appoggiavano al locale di Gioiosa Jonica, cui facevano riferimento le famiglie dei Belfiore, Ursino-Macrì, contrattavano la droga con i siciliani dei Cuntrera-Caruana residenti in Venezuela e che, nel novembre 2017, l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, confermava il rapporto tra le due organizzazioni criminali non solo nel campo degli stupefacenti, ma anche nell’ambito del settore dei rifiuti e della bonifica, rimarcando il fatto che diverse aziende siciliane operavano in Calabria e viceversa.

Storia analoga anche nel rapporto tra ‘ndrangheta e camorra, sulla base del quale si è dimostrata la doppia affiliazione come nel caso di De Stefano e Raffaele Cutolo. Per esempio i Cutolo uccisero Mico Tripodo per fare un favore ai De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa Franco Coco Trovato, ‘ndranghetista affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

Sempre negli anni ’80 fu Milano a essere teatro di un accordo trasversale che accomunava Cosa nostra e a ‘ndrangheta. Il centro logistico-affaristico fu l’autoparco sito in via Oreste Salamone, la base operativa del boss scissionista catanese Jimmy Miano, ormai defunto. In quell’autoparco avvennero decine di summit in cui furono decisi omicidi e strategie criminali che interessarono non solo Milano e il suo hinterland ma tutta Italia. Alcuni pentiti lo indicarono come il quartier generale del c.d. “Consorzio delle mafie” costituitosi tra il 1986 e il 1987. Le indagini e il conseguente blitz che mise le manette ai boss dell’autoparco di Milano furono firmati dai pm della procura di Firenze nel 1992.

Alla base di questo “consorzio”, in realtà, c’è sempre stato un elemento fondamentale per le mafie, ossia il denaro per il cui accumulo nessuna delle organizzazioni criminali di stampo mafioso ha mai “storto il naso” anzi, molto spesso, sono state ben disponibili a collaborare con quelli che in altri tempi potevano essere considerati concorrenti. Le mafie si suddividono territori e business e soprattutto trovano sempre all’interno di specifici ambienti, o meglio anche attraverso altri ambienti non specificatamente mafiosi, alleanze e ambiti di collaborazione.

Intervista al Procuratore Balsamo

A proposito del “Consorzio” delle mafie disvelato dall’indagine milanese dello scorso mese, interviene al QdS Antonio Balsamo, sostituto procuratore generale alla Corte di Cassazione.

Procuratore, la recente indagine di Milano ha riportato alla luce la capacità aggregativa delle diverse mafie autoctone. Ci vuole raccontare a quando risalgono i primi esempi di questa tipologia di collaborazione?

“Già nel maxi-processo erano emersi rapporti particolarmente importanti tra mafia siciliana e camorra. Non solo, c’era attenzione riguardante i rapporti tra le mafie storiche anche al nord. C’è poi stata un’evoluzione, che si riscontra già negli anni ’90, a seguito dei durissimi colpi inferti a Cosa nostra da parte dello Stato dopo le stragi del 1992. Ecco, è in quel momento che la ‘ndrangheta diventa il principale protagonista italiano nel traffico di stupefacenti. Da quel momento s’instaura, tra ‘ndrangheta e Cosa nostra, una stretta sinergia proprio sul tema della capacità della mafia calabrese di approvvigionare con grosse capacità di sostanze stupefacenti, per cui Cosa nostra gli si rivolge per una collaborazione indispensabile, anche a causa del grosso impegno investigativo nei confronti di Cosa nostra mentre la ‘ndrangheta uscì dai ‘radar’ abbassando il proprio profilo e questo sarà favorevole per lo sviluppo delle sue attività internazionali, anche grazie a un ruolo significativo da parte della Camorra. Proprio in quel momento si formalizzò una stretta collaborazione tra queste organizzazioni criminali storiche in quel ‘core business’, ancora oggi importante, che ha dato luogo all’evoluzione di tutte e tre le mafie storiche”.

“Abbiamo visto in Matteo Messina Denaro la persona che ha traghettato la mafia dalla stagione delle stragi a quella dell’infiltrazione nell’economia legale ma questo fenomeno lo abbiamo riscontrato sia nella ‘ndrangheta sia nella Camorra. La stessa ‘ndrangheta, che in passato si era caratterizzata principalmente per le sue manifestazioni particolarmente eclatanti e feroci di violenza, tende sempre più a presentarsi, specialmente nelle zone diverse da quelle del suo tradizionale insediamento, come operatore economico, come un fornitore di servizi a condizioni fortemente concorrenziali, anche perché si tratta una realtà economica che può beneficiare di un enorme flusso di denaro illecito, vantaggio competitivo sugli altri operatori economici”.

“C’è una forte tendenza a ridurre le manifestazioni clamorose di violenza per cercare di infiltrarsi nel tessuto economico anche nelle zone non tradizionali come la Lombardia, la Toscana, il Piemonte oppure l’Emilia Romagna, in cui ci sono state indagini, come quella denominata ‘Aemilia’ che hanno portato al disvelamento di un tessuto ‘ndranghetistico potente e articolato, in una regione che, nel tempo, era stata caratterizzata da un numero limitato di processi nei confronti della criminalità organizzata storica. In questo conteso è più che mai evidente che la ‘ndrangheta, come succede in Lombardia, si vesta dei panni dell’imprenditore. Oggi proprio in questi luoghi è stato messo in essere un forte condizionamento del tessuto imprenditoriale anche con episodi d’intimidazione e violenza. Si tratta d’imprenditori che non scendono a patti con la ‘ndrangheta pur appartenendo a ambienti cui essa si rivolge normalmente. Spesso, in alcune località della Lombardia, si assiste ad attività estorsive con risvolti violenti che ricordano quelle perpetrate al sud. Non si tratta di operazioni a tappeto, come avviene in Sicilia, ma è caratterizzato da violenze e, in alcuni casi, di sequestri finalizzati all’intimidazione, come dimostrano i molti processi celebrati. In realtà, in diverse parti d’Italia c’è un grosso problema”.

Di cosa si tratta?
“La nostra capacità di percepire esattamente il contenuto criminale di determinate organizzazioni. Prenda, ad esempio, i gruppi criminali di origine straniera. Da parte della realtà giudiziaria italiana c’è una grossa difficoltà di accertamento perché, come nel caso della Black Axe (un’organizzazione criminale di origine nigeriana, ndr), per considerare un’organizzazione delittuosa di matrice straniera non è possibile applicare i criteri che sono stati utilizzati con le mafie autoctone. Per esempio, il collegamento con la cosiddetta ‘casa madre’, insediata in altro paese ma che è punto di riferimento fondamentale per varie ‘cellule’ sparse nel mondo, non è sufficiente per dimostrare che ci si trovi di fronte ad una associazione di tipo mafioso”.

Perché?
“Perché si ritiene una fama criminale dell’organizzazione distinta dal singolo soggetto che ne fa parte, che deve rimanere anche quando il suo esponente è reso innocuo. Inoltre si ritiene che ci sia stata una capacità d’intimidazione concreta che abbia prodotto un assoggettamento omertoso nel territorio in cui è attiva quest’associazione. Ritengo che questo standard di prova rigoroso, che si sta osservando nella giurisprudenza, richieda un universo di conoscenza dei fenomeni criminali e dei loro rapporti con i gruppi etnici di appartenenza che potrebbe rappresentare un autentico salto di qualità. Mi chiedo se siamo in grado di raggiungere questo maggiore standard probatorio attraverso dei meccanismi di prova che non comprendono o collaborazioni con la giustizia o comunque una conoscenza proveniente dall’interno dell’organizzatore. La storia si ripete perché, anche in questo caso, torniamo ai nostri albori, quando non esistevano collaboratori di giustizia e non eravamo in grado di definire struttura e operatività sino all’arrivo di Tommaso Buscetta, nel 1984. La capacità di comprendere le radici sociali di questi fenomeni criminali potrebbe essere fornita da nuove forme di cooperazione internazionale, soprattutto con i magistrati di collegamento di questi paesi africani, come successe con la DNA (Direzione Nazionale Antimafia, ndr) e la procura di Palermo quando collaborò alle indagini, proprio sulla Black Axe, un magistrato di collegamento nigeriano. È inoltre necessario costruire un sistema di fiducia con persone che vengono da altri paesi e hanno avuto rapporti con apparati amministrativi che, molto spesso, sono inquinati da una forte corruzione e nei confronti dei quali non c’è un rapporto di fiducia”.

Mafie ed economia, un binomio fondamentale per il “Consorzio”

Qualcuno, sempre a proposito dell’indagine di Milano, ha posto particolare enfasi, quasi definendola novità, nell’illustrare il modello d’infiltrazione delle mafie che cercano di sembrare più imprenditori che mafiosi ma la lezione viene da lontano, da quel monito di Giovanni Falcone “la mafia è entrata in borsa”…
“Giovanni Falcone, che aveva una grandissima capacità di anticipare il futuro, perché aveva capito quale sarebbe stato il processo evolutivo delle mafie, anche in questo caso, in quel 15 marzo 1991 durante un convegno pubblico al castello Utveggio di Palermo, disse la frase da lei citata che continua a essere molto attuale. Non c’è dubbio che la mafia ha cercato di applicare, nel proprio modo di comportarsi, quella regola del ‘ciò che non c’è nei media non c’è nella realtà’. Il fatto di tenere un basso profilo, ossia il non commettere azioni delittuose eclatanti, serve proprio per far calare l’attenzione collettiva. In certi casi, inoltre, ritengo sia preoccupante la narrazione che è stata fatta di determinati boss mafiosi, faccio riferimento a quella narrazione che ha privilegiato mettere in luce relazioni amorose e gossip piuttosto che ricordare che, proprio quel boss, era invece autore di delitti indicibili, come quelli dell’uccisione di bambini. Per ritornare, invece, alla sua domanda, si nota da tempo una tendenza di Cosa nostra a mostrarsi non con un volto da antistato ma da operatore economico e questo vale per tutte le mafie. È difficile percepire la presenza della mafia in un contesto non tradizionale perché non riscontriamo quelle caratteristiche di un certo ‘ideal tipo’. E poi c’è un altro grande rischio…”.

Quale?
“Questo volto meno cruento della mafia serve a creare l’idea di una mafia sostenibile, ossia a veicolare un’idea molto pericolosa. Nel momento in cui un’organizzazione criminale acquista un potere economico particolarmente elevato, in quel momento, appena figure istituzionali la ostacolano, entra in rotta di collisione con la parte più impegnata dello Stato con attività eclatanti di terrorismo mafioso. Ricordiamoci che, proprio in Sicilia, la prima operazione di terrorismo mafioso avvenne subito dopo quell’enorme accumulazione di denaro sporco proveniente dal narcotraffico internazionale, che portò alla costruzione di nuovi rapporti tra mafia ed economia”.

“In altri paesi, ad esempio in Olanda, per molto tempo c’è stata l’illusione che la tolleranza di determinate forme di attività nel campo degli stupefacenti non producesse negativi ma, proprio in questo momento, questa convinzione sta venendo meno. Peraltro è aumentato il numero di giornalisti d’inchiesta colpiti direttamente proprio dal nuovo volto delle mafie e non posso non ricordare Mario Francese, che proprio per le sue inchieste ha pagato con la vita il prezzo più alto. In Olanda, anche e a seguito di manifestazioni criminali da parte dei gruppi attivi nel narcotraffico, qualche giornalista d’inchiesta è finito nel mirino di queste organizzazioni criminali”.

Di cosa abbiamo bisogno?
“In primis dobbiamo risolvere un problema di carattere culturale, perché abbiamo bisogno di capire come sono organizzate le mafie tradizionali quando spostano al Nord i loro interessi e per quello che riguarda le mafie di origini straniere perché nel territorio nazionale hanno la grande capacità di condizionamento di persone che sono ridotte in un fenomeno che in molti paesi è definita ì moderna schiavitù”.

“Abbiamo, inoltre, bisogno di un aggiornamento dei nostri strumenti d’indagini. Da un’indagine conoscitiva realizzata dalla Commissione Giustizia del Senato sul fenomeno delle intercettazioni, emerge la mancanza di una regolamentazione sulle nuove forme di comunicazione utilizzate delle organizzazioni criminali, per esempio dei crypto-fonini, oggetti che assomigliano agli smartphone attuali ma che, seppur dotati di un numero minore di funzioni, riescono a sottrarsi a tutte le forme più moderne di captazioni anche attraverso applicazioni specifiche (come la chat criptata Sky-ECC, ndr). Il loro costo, peraltro, fa ben capire che gli acquirenti spesso li acquistano per ragioni illecite su cui serve la massima segretezza. Si tratta di comunicazioni che passano attraverso piattaforme informatiche criptate con una quantità enorme di utenti. Ad esempio, il server individuato in Francia aveva 120.000 utenti. In Italia, però, non essendoci nessuna specifica legislazione, non è possibile per l’autorità giudiziaria accedere a dati di eventuali server localizzati in Italia”.

Il futuro dell’indagine

Procuratore, in chiusura avrei bisogno di un suo chiarimento giuridico a proposito del ricorso al Tribunale del Riesame da parte della Procura di Milano, anche perché siamo abituati al fatto che il ricorso normalmente viene fatto da indagati che chiedono di rivedere la propria posizione…
“È già successo. Il diritto del ricorso al Tribunale del Riesame spetta all’indagato, se colpito da un’ordinanza di custodia cautelare, ma anche al pubblico ministero che può fare appello contro la decisione del Gip di non applicare la misura cautelare richiesta dalla Procura, per le più varie ragioni, negandola. La decisione di applicare un’eventuale misura cautelare, sulla base del ricorso di una Procura, diviene però esecutiva solo dopo aver proposto un ricorso in Cassazione respinto”.

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