Coronavirus, l’emergenza senza la paralisi: si può. Il modello Corea del Sud si applichi alla Sicilia - QdS

Coronavirus, l’emergenza senza la paralisi: si può. Il modello Corea del Sud si applichi alla Sicilia

redazione

Coronavirus, l’emergenza senza la paralisi: si può. Il modello Corea del Sud si applichi alla Sicilia

giovedì 02 Aprile 2020

Via l’inutile burocrazia, mascherine distribuite dallo Stato a prezzi calmierati e big data contro il contagio. L’epidemiologo Pedalino: “Seoul ha adottato delle misure ritenute socialmente accettabili. Applicarle in Italia? Da noi la privacy viene prima del bene collettivo”

di Gabriele D’Amico e Pietro Vultaggio

Nella lotta al Coronavirus la strategia che a livello mondiale di certo ha prodotto i migliori risultati è stata quella messa in campo dal Governo sudcoreano. Strategia anti-contagio che da poco è stata ampliata con il carcere fino a un anno o una multa di 8,2 mila dollari per coloro che non rispettano la quarantena.
L’efficienza di questo sistema è dovuta anche alle recenti esperienze con malattie virali simili (come la Mers nel 2015) che hanno spinto il Governo sudcoreano verso nuove normative e strategie per affrontare l’eventuale arrivo di una nuova epidemia.

Via l’inutile burocrazia
Le normative all’avanguardia della Corea del Sud prevedono l’eliminazione di inutili passaggi burocratici, che invece sono stati parte integrante della strategia italiana contro Covid-19. A poco più di un mese dal primo contagio nel Paese, il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, ha portato al massimo il livello di allerta contro il virus. Tuttavia, per i cittadini nessuna autocertificazione e niente quarantena forzata per tutti. Con il conseguente minor impiego di forze dell’ordine ed esercito nelle strade. Inoltre, ospedali e farmacie sono stati immediatamente riforniti di mascherine dallo Stato, che le ha distribuite a prezzi calmierati e senza bisogno di lunghi percorsi burocratici. Differenza abissale con l’Italia, dove nemmeno ai sanitari, ancora oggi, sono garantiti i Dpi e i cittadini sono costretti a rivolgersi ai privati che in molti casi aumentano i prezzi per lucrare sull’emergenza.

I Big data contro il contagio
La misura che ha fatto discutere più il mondo intero è stata la mappatura dei cittadini positivi a Covid-19 attraverso l’App “Corona100m”. Quest’applicazione, non obbligatoria, incrocia i dati Gps del telefono, messi a disposizione delle forze di polizia; gli archivi delle carte di credito, conservati dagli enti finanziari; gli archivi degli accessi agli ambulatori e alle farmacie e le registrazioni delle videocamere di sorveglianza. In questo modo è possibile individuare il percorso dei contagiati e comunicarlo ai cittadini sani, che sono in grado di sapere se si trovano vicini ad un luogo visitato in precedenza da una persona infetta. I contagiati, invece, sono obbligati ad utilizzare l’App per comunicare il loro stato di salute al personale sanitario. Gli ospedali, quindi, hanno modo di decidere chi ricoverare e chi curare “da casa”. In Italia, alcune regioni hanno fatto qualcosa di simile. La Regione siciliana, ad esempio, ha sviluppato l’App (a breve scaricabile dagli store digitali) “Sicilia si curaper il monitoraggio volontario dei contagiati. I siciliani che, con grande senso di responsabilità, decideranno di registrarsi potranno far conoscere alle Asp il loro stato di salute oppure fornire informazioni utili sul contatto con altre persone o sul luogo in cui si trovano in isolamento.

Test rapidi effettuati in massa
Un’altra misura fondamentale attuata dal Governo di Seoul è stata la produzione di test rapidi per la positività al Coronavirus. Test che sono stati effettuati in massa (dopo il primo mese e mezzo di emergenza ne sono stati eseguiti più di 240 mila). Il tempo impiegato per l’esecuzione di questi test è di circa dieci minuti e riduce al minimo l’esposizione agli operatori sanitari e agli altri pazienti, al contrario di quanto avverrebbe in un ospedale o in una clinica. Questo fattore, unito alle stazioni mobili per i test, alle visite a domicilio e ai punti di controllo in strada, hanno messo al sicuro da eventuali contagi gli operatori sanitari impiegati in prima linea nella lotta al Covid-19 e hanno evitato di rendere i Pronto soccorso zone a rischio infezione. Esattamente il contrario di ciò che avviene in tutta Italia, dove spesso interi reparti di ospedale vengono chiusi e sanificati dopo il passaggio di un contagiato.

Nessuna “zona protetta”
Nonostante le altissime precauzioni prese sia dagli enti pubblici che da quelli privati, in Corea del Sud nessuna attività produttiva o commerciale è stata chiusa. Nessuna “Zona protetta” come in Cina o in Italia. Nelle città sudcoreane i cittadini sani possono ancora uscire per andare al mercato rionale o per andare a mangiare in un ristorante o semplicemente fare una passeggiata lontano dal proprio domicilio. Come già detto, tuttavia, l’attenzione è massima. Per esempio, tutti i mezzi pubblici sono stati dotati di dispenser di gel igienizzante per le mani e in molti locali sono state assunte persone per ricordare agli altri di lavarsi le mani.
Permettendo all’economia di girare e, nel contempo, riuscire a contenere al minimo i contagi, la Corea del Sud ha evitato ciò che in Sicilia si sta già manifestando con le rapine ai supermercati: l’emergenza sociale.

I numeri
La Corea del Sud, che conta 51 milioni di cittadini, secondo l’ultimo studio sulle cure sanitarie pubblicato dall’Ocse, ha a disposizione 7,2 posti letto negli ospedali ogni mille abitanti. L’Italia (60 milioni di cittadini) ne ha a disposizione 2,6 ogni mille.
Nel Belpaese, il numero complessivo dei contagiati da Coronavirus, secondo i dati forniti dalla Protezione civile, è di 110.574, i morti sono 13.155 e i guariti sono 16.847.
In Sud Corea, gli ultimi dati parlano di tre morti con coronavirus e 101 nuovi casi, per un totale di 165 vittime e 9.887 contagi.
Sono gli ultimi dati confermati dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie del Paese (Kcdc), riportati dall’agenzia sudcoreana Yonhap.
Le zone più colpite restano quelle di Daegu e della provincia di Gyeongsang Settentrionale, ma preoccupano anche Seul e la regione limitrofa che nelle ultime ore hanno registrando in totale 52 nuovi casi. In totale i casi ‘importati’ sono 560.



L’intervista del Quotidiano di Sicilia all’epidemiologo siciliano, Biagio Pedalino

Il Covid-19 ha messo in ginocchio persino i Paesi più evoluti, paralizzando ogni aspetto della vita quotidiana.
In questo scenario, la Corea del Sud emerge come un modello unico nel contrasto all’epidemia, basato sulla trasparenza, test a tappeto e vissuto di precedenti stati di emergenza.
Abbiamo approfondito l’argomento con il medico epidemiologo Biagio Pedalino.
Perché il modello Corea del Sud ha funzionato nel contenimento della pandemia da Coronavirus?
“Per arrestare un’epidemia da malattia trasmissibile come quella del coronavirus, è cruciale identificare precocemente i soggetti infetti e isolarli. Si redige poi la lista dei ‘contatti’ (chi è stato vicino a soggetti infettati), se ne valuta lo stato di salute e la conseguente gestione (es: positivi al tampone in isolamento, negativi in monitoraggio per un tempo pari al periodo di incubazione). Le misure di contenimento sono dettate dalla modalità di trasmissione del patogeno. Per il coronavirus, l’isolamento dei soggetti infetti ed il distanziamento sociale sono le misure più efficaci. In Corea del Sud sono stati applicati metodi innovativi: tracciabilità con Gps, transazioni di carte di credito, telecamere di sorveglianza disponibili ed un’intensa attività di tamponi sul territorio”.

Cosa ha fatto la differenza tra la Corea del Sud ed il resto del mondo?
“Esperienze simili, come ad esempio, la Sars nel 2002, e la Mers CoV nel 2012, hanno di certo aiutato a riconoscere il pericolo e a rispondervi prontamente. Gli elementi determinanti sono però stati la velocità di risposta, l’aumento della capacità dei laboratori a processare un alto numero quotidiano di tamponi, oltre che degli ospedali, e la possibilità di utilizzare i metodi che, in Corea del Sud, sono socialmente accettabili”.

Il modello della Corea del Sud potrebbe applicarsi all’Italia?
“Non esiste un ‘modello Corea del Sud’, ma i principi dell’investigazione epidemiologica come da linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Quello che varia, tra i Paesi, sono la velocità di risposta ed i metodi utilizzati per applicare gli stessi principi. I metodi variano in base al tessuto politico, culturale e socio-economico del paese e la variabilità determina un ritardo o un’accelerazione del contenimento dell’epidemia. In Corea del Sud si è potuto essere più drastici nell’applicare le misure di contenimento perché il loro tessuto socio-culturale lo ha permesso. L’Italia è ancora un Paese dove i principi della privacy e dell’individualità vengono prima del bene collettivo. In Italia ci si è preoccupati maggiormente della capacità di gestione degli ospedali, tralasciando la capacità dei laboratori. Ritengo, dunque, che la difficoltà ad applicare lo stesso approccio della Corea del Sud sia legata più a fattori culturali e di gestione della sanità pubblica e del territorio che ad altro”.

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