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Crisi Mar Rosso e commercio mondiale: il comparto si adatta ed è così che resiste

redazione

Crisi Mar Rosso e commercio mondiale: il comparto si adatta ed è così che resiste

Marianna Agata Strano  |
sabato 16 Marzo 2024

L’Ispi getta acqua sul fuoco e scaccia gli spettri per gli sviluppi futuri: la chiave di volta rimane la resilienza

ROMA – La guerra è tossica per gli equilibri internazionali: scatena tensioni su piccola e larga scala, fomenta il business delle armi e attività illegali di vario tipo, produce crisi umanitarie ed economiche. A risentirne è anche il commercio internazionale, che in tempo di pace offre opportunità di crescita e scambio ma in tempo di guerra si trasforma sempre più spesso in strumento di ricatto e lotta per il potere. Le conseguenze delle guerre in Ucraina e in Israele – due dei tanti conflitti nel mondo in questo “caldo” 2024, ma probabilmente i fronti più grossi – sono la palese dimostrazione di come il mercato economico sia fragile ma anche non disposto a cedere al rischio di disfatta totale.

Covid, shock energetico, Medio Oriente (ancora) in subbuglio. Il commercio e l’economia negli ultimi anni hanno imparato a fare i conti con i drammi geopolitici e adesso si preparano ad affrontare la temuta apertura di un “nuovo” (se tale può definirsi) fronte di guerra in Yemen, dove i ribelli Houthi – approfittando dell’escalation del conflitto tra Israele e Hamas – hanno utilizzato l’ostruzione delle rotte commerciali per riacquisire il potere perduto.

Mar Rosso, guerra e commercio internazionale

La guerra diventa tale quando è anche economica. O almeno, diventa di interesse internazionale quando riesce a mettere in discussione degli equilibri politici ed economici di rilievo. Le operazioni degli Houthi nel Mar Rosso hanno una forte componente economica, il che spiega l’immediata reazione del fronte Usa-Uk e dell’Ue con l’operazione Aspides al fine di tutelare le navi mercantili finite nel mirino dei ribelli yemeniti. C’è un filo rosso che collega il Mar Rosso al Mediterraneo e l’eventuale escalation in un’area strategica come quella vicina al Canale di Suez potrebbe tagliarlo, mettendo a rischio rotte commerciali di primaria importanza.

Il nodo del Canale di Suez

A risentire maggiormente della tensione nel Mar Rosso è il Medio Oriente, ma anche l’Europa e potenze regionali come l’Egitto sono duramente colpite. Lo conferma Roberto Italia, analista dell’Osservatorio di Geoeconomia dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), che commenta: “Gli attacchi alle navi nell’area hanno ridotto in questi mesi di quasi il 50% il traffico attraverso il Canale di Suez, la rotta marittima più breve tra Asia ed Europa, attraverso la quale normalmente passa circa il 15% del volume del commercio marittimo globale”.

Degli effetti dell’escalation in Medio Oriente e nell’area del Mar Rosso si notano già. A tal proposito, Italia riporta i dati delle prime stime dell’impatto sul commercio: “Il Canale di Suez è una delle principali fonti di entrate in valuta estera per Il Cairo, contribuendo con 9,4 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2022/2023, circa il 2,3% del Pil del Paese. A gennaio è stato registrato un calo di oltre il 40% nelle entrate dalla gestione del Canale rispetto all’anno scorso. Per l’Egitto, una riduzione dei traffici di questa entità da Suez significherebbe una perdita di circa 4 miliardi di dollari: l’1% del Pil egiziano, ma soprattutto uno dei principali afflussi di dollari, moneta forte e salvagente per un Paese in forte crisi da tempo”.

Caso Yemen, perché ci interessa

Quattro miliardi sono tanti, specialmente per un Paese come l’Egitto, strategico su tanti fronti: commercio, collegamento, gestione dei migranti, strategie in vista del tanto atteso accordo di pace con Israele, giusto per citarne alcuni. L’Egitto non può permettersi un crollo del Pil, così come le potenze europee e mondiali che trovano a Suez un mercato fecondo e ricco di prospettive. Sotto banco, la volontà di tenere d’occhio la potenziale escalation del Mar Rosso – “guidata” dagli Houthi yemeniti – c’è: se così non fosse, non si registrerebbero i presunti “colloqui segreti” tra Usa e Iran, pronti a trasformarsi potenzialmente da nemici giurati a “collaboratori” uniti strettamente da necessità economiche.

La guerra in Yemen negli ultimi dieci anni e oltre non ha occupato mai le pagine della cronaca internazionale come adesso. E il motivo sembra essere che la crisi umanitaria non scatenava le paure dei signori mondiali del business, cosa che gli attacchi navali – potenziali e reali – fanno regolarmente. “La guerra in Yemen è in una fase di stallo già da tempo – spiega Roberto Italia – e la crisi nel Mar Rosso è legata a essa solo per via dei calcoli politici degli Houthi. L’attenzione internazionale verso la guerra yemenita, infatti, è sempre stata risibile e le missioni internazionali dispiegate in queste settimane non hanno oggi un obiettivo diverso dal garantire la sicurezza lungo le tratte commerciali”.

In merito ai “giochi” degli Houthi, aggiunge: “Stanno agendo più per dinamiche di politica interna, facendo leva sulla retorica anti-israeliana. Il gruppo, infatti, prima del 7 ottobre, stava vivendo una crisi di legittimità data dal protrarsi di una fase di relativa calma interna allo Yemen che aveva messo in mostra il loro autoritarismo e la cattiva gestione del territorio su cui hanno il controllo. Dopo la risposta israeliana, gli Houthi hanno iniziato ad attaccare nel Mar Rosso facendo leva sul forte sentimento anti-israeliano per riguadagnare legittimità interna e distogliere l’attenzione dalla cattiva amministrazione locale. Inoltre, hanno alzato la posta negoziale con l’Arabia Saudita: Riyadh, infatti, sta cercando da tempo di trovare un accordo con il gruppo per evitare attacchi sul suo territorio”.

Dal Mar Rosso al Mar Mediterraneo

Quanto accade nel Mar Rosso mette a rischio il commercio via mare e la “crociata” per la difesa della sicurezza nella navigazione è già partita. Si teme che l’instabilità in Yemen, sommata alla già devastante situazione di Gaza e alle altre crisi del cosiddetto Medio Oriente, possa urtare – e non delicatamente – i labili confini del Mediterraneo. Sui rischi per l’area mediterranea, l’esperto dell’Ispi commenta che al momento per l’Europa la situazione appare relativamente sotto controllo: “Si tratta di onde d’urto lungo alcune catene di approvvigionamento”.

Lo scenario però non è privo di potenziali buchi neri da tenere sotto controllo, soprattutto in considerazione della “coda lunga” del Covid, dello shock energetico e del conflitto russo-ucraino ancora in corso. “Una discesa più accidentata e incerta dell’inflazione nel breve termine rispetto a uno scenario senza crisi potrebbe ritardare l’inizio previsto dei tagli dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale europea e il sostegno alla crescita di un’Eurozona stagnante”, spiega Italia.

Il settore più a rischio è quello alimentare, un motore fondamentale del commercio globale: “L’allerta deve restare alta – evidenzia l’analista dell’Ispi – più per i prezzi alimentari che per quelli dei combustibili fossili. Le navi cariche di generi alimentari sono tra quelle che evitano il Mar Rosso, ma a differenza dei carichi di gas, petrolio e beni di consumo, tempi di spedizione più lunghi rischiano di rendere invendibili gli alimenti deperibili, soprattutto frutta. Quasi 70 miliardi di euro di import/export agroalimentari tra Ue e Asia sono potenzialmente interessati. Inoltre, i porti del Mediterraneo come quelli italiani potrebbero subire contraccolpi, con lo spostamento del traffico marittimo nel Nord Europa o nell’Africa Nord-occidentale. Senza dimenticare che la recente notizia sul taglio di quattro cavi sottomarini nel Mar Rosso (da accertare ancora le cause) apre un altro capitolo, quello della sicurezza del traffico Internet tra Europa e Asia. Infine, come ricordavo prima, ci sono poi Paesi nell’area orientale del Mediterraneo come Egitto e Libano già da tempo in profonda crisi economica: lì si gioca tutta un’altra partita”.

Tra danni e scenari futuri, il commercio a un punto di svolta

Italia spiega anche che “le tensioni scaturite dalla guerra a Gaza hanno avuto per ora solo un impatto economico marginale a livello globale, eccezion fatta per i Paesi diretti interessati”. Tuttavia, invita a non confondere la crisi del Mar Rosso con il conflitto tra Israele e Hamas, che sono due eventi diversi che potrebbero avere durate ed effetti altrettanto diversi. Se le tensioni con gli Houthi dovessero durare a lungo “l’impatto a breve su commercio e inflazione sarebbe più rilevante”; quindi, non bisogna sottovalutare il pericolo solo perché non c’è ancora stata una recessione su larga scala.

Nello scenario peggiore, quello del prolungamento e/o dell’allargamento del conflitto, però, per il commercio internazionale “c’è una speranza”. Lo spiega bene l’analista dell’Ispi, che commenta: “L’economia globale in questi anni ha subìto uno shock dietro l’altro: la guerra commerciale tra Usa e Cina, la pandemia, la guerra in Ucraina e quella a Gaza. E, direi anche sorprendentemente, la capacità di resistenza e adattamento è stata importante e non abbiamo assistito a nessuna recessione su larga scala, eccezion fatta per la parentesi pandemica nel 2020. È possibile, dunque, che gli attuali eventi in Medio Oriente accelerino la fase di ri-globalizzazione e di diversificazione degli approvvigionamenti già in corso in questi anni e diano maggior peso a nuovi progetti e rotte terrestri come in Arabia Saudita e marittime come in Africa Nord-occidentale”.

È questa la visione “ottimista”, che si poggia su un dato positivo: al momento – nonostante il mondo travolto dalla guerra – per la crescita globale “non si stimano scossoni” e la resilienza del settore commerciale globale, specialmente via mare, sembra promettere bene. Tuttavia, anche nello scenario migliore e in caso di cessate il fuoco immediato, c’è una grande sfida da tenere a mente. E non sarà una sfida “localizzata”. Si tratta della ricostruzione di una zona – parliamo principalmente di Gaza, ma potremmo includere lo Yemen in questa considerazione – sottoposta da tempo a una crisi umanitaria pesantissima, che con l’escalation di violenza è diventata una crisi generalizzata di natura economica, politica e ambientale.

Citando dei dati dell’Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo), Italia spiega che: “Se l’attuale operazione militare dovesse terminare immediatamente con l’inizio della ricostruzione e il trend di crescita pre-2023 dovesse persistere, ipotesi molto ottimistica, Gaza impiegherebbe fino al 2092 solo per ripristinare i livelli di Pil del 2022”.

E infine c’è la crisi ambientale, seconda solo a quella umanitaria e strettamente connessa a quella economica: “L’analisi di dati satellitari ottenuti dalla Bbc mostra che in tutta la Striscia sono stati danneggiati o distrutti tra i 144.000 e i 175.000 edifici, ovvero tra il 50% e il 61% delle strutture a Gaza. L’enclave, la cui metà della popolazione è composta da minori, è ora quasi inabitabile. L’Ono sta indagando sull’impatto ambientale della guerra, visto il picco catastrofico nella quantità di detriti e nell’inquinamento del territorio, del suolo e dell’acqua”.

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