Tempio, poeta che raccontò la miseria e la fame degli ultimi - QdS

Tempio, poeta che raccontò la miseria e la fame degli ultimi

Giuseppe Sciacca

Tempio, poeta che raccontò la miseria e la fame degli ultimi

sabato 03 Ottobre 2020

Spesso bollato come pornografo, in una Catania che si ricostruiva sia architettonicamente che socialmente, con la sua "Carestia" riuscì a evidenziare il dramma del popolo

Nacque a Catania il 22 agosto del 1750, sono quindi trascorsi 270 anni dalla sua nascita, ma ancora oggi sono in molti, anche tra i suoi concittadini, a nutrire pregiudizi in merito all’arte di Domenico Tempio, di sovente e sbrigativamente bollato come il “poeta pornografo”.

Un vero intellettuale per lungo tempo dimenticato, ma che periodicamente e casualmente si ripropone alla ribalta, non soltanto per le poesie erotiche, ma per il messaggio di protesta sociale della sua opera più importante, il poema in versi e in lingua siciliana “La Carestia”.

A chi si chiede la ragione per cui è meno noto di altri poeti della sua stessa epoca, viene data di sovente una risposta, senz’altro in parte veritiera: Micio Tempio, così lo chiamano ancora oggi i suoi concittadini, ha una doppia palla al piede, costituita dall’utilizzo della lingua siciliana e dalle sue poesie licenziose, che allo stesso tempo però ne hanno alimentato la notorietà e la memoria nel tempo.

Per comprenderne la sua complessa personalità, quale uomo dei suoi tempi, bisogna conoscere almeno un po’ della Catania in cui visse, da cui trasse ispirazione e da cui non volle mai allontanarsi per nessuna ragione. Il secolo che precedette quello della sua venuta al mondo, vide la morte di una città antica e la rinascita di una del tutto nuova. L’eruzione dell’Etna protrattasi dai primi di marzo a metà luglio del 1669 fu la più devastante avvenuta in epoca storica che si ricordi, capace di cancellare tutta la parte Ovest della città. La colata lavica scese lungo il percorso dell’attuale via Plebiscito, lambendo le mura del Castello Ursino fino a giungere a mare, allungando la scogliera già esistente.

Come se tutto questo non rappresentasse già un disastro di eccezionale portata, l’11 gennaio del 1693, 24 anni dopo, una violenta scossa sismica rase al suolo la città, mietendo 16.000 vittime. Di fronte a tanto inumano sgomento la città risorse dandosi un nuovo impianto urbanistico, in cui fiorì il barocco siciliano le cui opere, a tutt’oggi, sono sotto i nostri occhi e motivo di orgoglio e vanto.

Ripartì una nuova vita sociale, culturale ed economica, nel corso di anni che segnarono un giro di boa, un cambio di mentalità per una società di tipo feudale trasformatasi in una realtà più moderna e aperta alle nuove idee.

Nel Settecento, secolo in cui venne alla luce Domenico Tempio, in Sicilia e anche a Catania la cultura era attraversata dalla diffusione di nuove idee e da orientamenti filosofici d’ispirazione illuministica. Al dilagare di tali nuove idee, foriere anche di rapidi mutamenti di costumi e stravolgimenti sociali, si opposero, specie tra la nobiltà e il clero, coloro che cercarono strenuamente di arginare tali cambiamenti, creando un contrapposto fronte di sbarramento, una vera e propria diga alimentata e sostenuta dal pensiero conservatore. Tra queste due opposte sponde rimbalzarono vivaci le polemiche culturali e letterarie.

In questa realtà appena accennata, il giovane Domenico Tempio, fu in un primo momento avviato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica ma, non avendone l’inclinazione, passò a studi di giurisprudenza, anche questi abbandonati per abbracciare quelli umanistici, che lo portarono a essere, insieme al palermitano Giovanni Meli, il più importante poeta siciliano di quegli anni.

I due avevano un modo di comporre sostanzialmente diverso: se il Meli divenne colui che meritò appieno il titolo di voce più prestigiosa dell’Arcadia siciliana, con i suoi versi è la più ispirata interpretazione di un modo bucolico e fiabesco, sfumato e flebile, popolato da puttini e pastorelle; il Tempio fu invece poeta dal tratto virile e di carattere, ispirato dal linguaggio, crudo, dei suoi personaggi, tratti dai quartieri più popolari di Catania e specificamente dalla sua amata “Civita”, casa di personaggi eccessivi e colorati, dei loro bisogni, delle loro privazioni e anche delle loro passioni e ingenuità. Tutto ciò fece della produzione letteraria di Tempio un eccezionale strumento di accusa sociale, per denunciare le ingiustizie e le sofferenze a cui erano inesorabilmente e impietosamente condannati i ceti più umili.

Tempio si soffermò sulla squallida vita dei diseredati, costretti a diventare disonesti per tentare di sfuggire alla fame, evidenziando come tutto questo dramma quotidiano si consumasse nella più completa indifferenza sociale. Una società ingiusta, che iniquamente esponeva gli ultimi anche al rischio di subire le condanne della Giustizia per atti a cui la disperazione e la necessità li costringe. Dovendo narrare di una vita resa oscena dalla necessità, anche il linguaggio del Tempio, nelle poesie che gli diedero da subito successo e popolarità, era egualmente osceno e crudo.

Questo modo di esprimersi, forte e tagliente, non aveva nulla in comune con i versi del suo antagonista, Giovanni Meli, anche se Tempio ebbe, occasionalmente, modo di scrivere seguendo i dettami di quell’Arcadia che in altri scritti dissacrò. Questo duello a distanza trovò, all’occhio degli appassionati, un ulteriore motivo di polemica nel fatto che in quel momento il suo competitor palermitano, dallo stile fluente e forbito, veniva chiamato “l’abate Meli” a causa del suo vestire di scuro con il collarino bianco e per gli studi teologici effettuati, circostanza che accomunavano i due poeti, anche se, invero, nessuno dei due venne mai ordinato sacerdote.

L’opera con cui Domenico Tempio si adoperò più che ogni altra a smascherare le falsità e gli inganni della società fu il già citato poema “La Carestia”, che narrò i tumulti popolari verificatisi a Catania a seguito della carestia che afflisse la città negli anni 1797 e 1798. Il bisogno e la disperazione resero gli affamati i protagonisti della sommossa, che trasformò ogni nullatenente in un rivoluzionario a modo suo, ciascuno con una propria storia triste e di enormi sofferenze umane da raccontare. Tutte queste storie insieme, di uomini accomunati dalla malasorte, diedero voce finalmente agli ultimi e il poema da loro trasse la sua forza narrativa.

L’opera, tutta scritta in una lingua siciliana del popolo, venne impreziosita dalla cultura classica del poeta, che non fece mancare nei versi invettiva, satira, parodia, esibizione del grottesco, protesta sociale e politica, nonché tanti richiami ad argomenti mitologici, biblici e storici. Tempio, così, dimostrò in pieno che la poesia erotica non era il solo campo in cui poteva eccellere e che peraltro non rappresentava neanche l’unico tratto distintivo della sua produzione letteraria.

“La Carestia” sarebbe poi stata riconosciuta, ma solo dopo la morte del poeta, opera di rilevante valore artistico, che solo una persona colta e profonda, conoscitrice del mondo classico, anche se paradossalmente aduso a frequentare e vivere il mondo popolare della “Civita” e dei vivaci personaggi che la popolavano, avrebbe potuto rendere con tanto realismo ed eleganza.

Il poeta scrisse per smascherare gli inganni della società di quegli anni, in cui sia nobiltà che clero, chiusi nei loro palazzi, restavano insensibili e distratti di fronte al dramma di quelle esistenze violate. L’opera raggiunse così il suo scopo: colpire e mettere a nudo le convenzioni sociali di facciata che erano il riflesso di una cultura ufficiale fortemente ipocrita.

Dalle pagine venne fuori un poeta scettico e pessimista, che giudicava il pensiero a lui contemporaneo astratto e privo di effettive capacità di incidere sulla realtà. Non gli risultavano credibili le nuove teorie sullo stato etico e di solidarietà sociale presenti nel Contratto sociale di Rousseau, ma nello stesso tempo sconfessava nobiltà e clero, privi di una qualsiasi coscienza sociale e assolutamente insensibili nei confronti degli ultimi, a cui di fatto negavano ogni soccorso, salvo poche figure sporadiche e singolari eccezioni.

La polemica di Domenico Tempio fu anche rivolta contro lo stesso popolo, privo di una propria autonomia di giudizio a causa dell’ignoranza, degli affanni e dei quotidiani travagli per soddisfare le esigenze minime della vita. Tempio anticipò, con il suo modo di scrivere, il verismo, che si sarebbe affermato come sistema e stile di narrazione ben quarant’anni dopo la sua morte.

Tornado al “poeta pornografo”, è doveroso chiedersi se questi versi, certamente osceni e crudi, fossero sempre fine a sé stessi e mossi unicamente dal compiacimento per l’ostentazione dell’oscenità, oppure furono pensati come strumento per propugnare costumi più rispettosi del senso della morale. Invero, in alcune sue composizioni, Tempio palesò il monito rivolto al popolo, e ancor più nei confronti della nobiltà, contro la vita sregolata, avversando l’edonismo tipico del Settecento, tutto volto alla ricerca materiale dei piaceri. Segnatamente, alcune poesie divennero un mezzo per puntare l’indice e rendere palese la corruzione che albergava anche tra il clero. Se questa tesi può apparire incerta e appena adombrata nella poesia “La monica dispirata”, che denunciò la piaga dell’interessato avviamento alla vita conventuale per motivazioni di carattere esclusivamente economico e di patrimonio, in danno di persone che non ne avevano alcuna vocazione, le composizioni “Ad reverendum N.N.” e “Padre Siccia”, presero la forma di un’aperta e diretta denuncia della corruzione dei costumi che nel Settecento si manifestò abbondantemente negli ambienti della Chiesa e contro cui nulla poterono i tribunali vescovili, cui spettava la giurisdizione in materia di delitti sessuali.

La prima fu scritta in un misto di latino classico e latino sicilianizzato, con l’inclusione di termini provenienti dal catanese e falsamente latinizzati. Un monologo, in cui venne magnificato il concetto che i doni possono servire ad adescare le giovani prede da concupire.

Nella seconda, la denuncia fu particolarmente dettagliata in quanto venne esposto il meccanismo e la dinamica dell’attività di adescamento attuata dal pedofilo. Padre Siccia, il cui nomignolo non è casuale, ma pensato per mettere in luce le preferenze e le inclinazioni sessuali del religioso, che dapprima intesseva elogi sui meriti e sulle prerogative dell’amicizia e poi giungeva a formulare nuove e improbabili teorie teologiche, pur di far apparire accettabili, al suo giovane interlocutore, le pretese di rapporti sessuali che gli manifestava.

Lo scrittore Salvatore Camilleri affermò, commentando la figura letteraria del conterraneo Domenico Tempio: “Una fantasia vulcanica e non facilmente controllabile e una straordinaria facilità di versificazione”. Ma questa irruenza certamente non è sufficiente a chiarire la scelta del Tempio di voler essere non occasionalmente, ma in modo determinato, poeta di argomenti comunemente definiti indecenti. Le ragioni di questa predilizione poetica forse bisogna andarle a cercare nel profondo dell’anima dell’artista, nel suo scetticismo e nel suo pessimismo, nel suo convincimento della immodificabilità della condizione umana e quindi nella percezione di quella società ingiusta in cui i protagonisti – e quindi il popolo da una parte e dall’altra la nobiltà e il clero – si fronteggiavano in una sorta di danza macabra.

Neanche le nuove idee illuministe gli diedero speranza, perché gli apparivano realisticamente capaci di incidere e modificare quella realtà stagnante e sonnolenta. Al Tempio non restò così che denunciare, con le sue opere, quello stato di cose nel modo più diretto possibile, con la forma dal medesimo ritenuta più efficace e aspra, contrapponendo all’ipocrisia dei ceti privilegiati e dominanti e al loro linguaggio salottiero la licenziosità del parlare della plebe, che di sovente sconfinava nello scurrile. E nell’ambito di questa dialettica è sempre il linguaggio del corpo umano il mezzo di espressione centrale. Un argomento di cupidigia ed elemento d’azione nelle poesie erotiche, oggetto passivo e sovrastato dalla preponderanza delle sofferenze e anche ostentato, per la repulsione che suscita, nel poema “La Carestia”.

Una coerenza che accompagnò il poeta nell’arco della sua intera vita: da giovane vedeva nell’energia primordiale del sesso un mezzo di libertà per giungere a una dimensione ideale, mentre, ormai maturo, con il poema “La Carestia” esibì i corpi scarni e scheletrici dei protagonisti per suscitare sentimenti di orrore, che lui prima di ogni altro direttamente avvertiva nella miseria degli abitanti dei vicoli dei quartieri più degradati.

In ogni caso, il suo scrivere è stato il modo personalissimo e voluto per imprimere, in maniera indelebile, il proprio nome nel flusso continuo della storia.

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