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L come Lacrima

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L come Lacrima

Fabio Gabrielli  |
venerdì 24 Marzo 2023

La lacrima è un’eccedenza mai colmabile dalla parola e dallo sguardo

La lacrima, nella sua selvaggia radicalità, è assoluto segno di carne dell’umano.

La lacrima è un’eccedenza mai colmabile dalla parola e dallo sguardo, chiede solo un pudico accostarsi, un’accoglienza quasi senza presenza, sullo sfondo, nella penombra, un luogo mai davvero definibile in cui possa fiorire il gesto umano per eccellenza, la tenerezza.

L’occhio, dice Jacques Derrida, è “fatto per piangere”, nel senso che le “lacrime vengono agli occhi”, proprio perché non sgorgano a comando, ma fluiscono spontaneamente. L’occhio, in altri termini, è “fatto per piangere”, poiché, velandosi, rivela la sua essenza, la radicalità della sua esperienza, che va oltre lo sguardo che proietta sé stesso per impadronirsi dell’altro. L’occhio che lacrima si smarca dalle pretese del suo vedere con “esattezza”, dal suo calcolare e misurare, per arretrare, per farsi spazio, per accogliere il segreto inesauribile dell’altro, la sua fragilità, la sua morte.

Lo stesso linguaggio idrico con cui le lacrime ci parlano (irrigare, scorrere, bagnare, solcare) rinvia alla loro inappropriabilità, al loro segreto sempre sfuggente. Il senso più riposto della lacrima ce lo consegna, forse, Alessandro Manzoni nel capitolo XXXIV de “I promessi sposi”, il grande capitolo della peste e della madre di Cecilia, che porta in braccio la figlia, morta di peste, per adagiarla sul carretto dei monatti: “Gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante […] Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria”.

In questo breve passaggio emerge tutto il genio psicologico di Manzoni: gli occhi non esibivano le lacrime, ma custodivano la loro segretezza, la loro irripetibile intimità (il segno delle lacrime). Eppure, questa intimità, proprio perché trattenuta, conservata nel suo mistero, non resa pubblica, visibile a qualsiasi sguardo che intenda essere solo intrusivo, accende la pietas del monatto. Il “turpe monatto”, abituato ad accumulare cadaveri in serie, ormai così avvezzo a questa operazione da nutrire un meccanico distacco, quasi fossero oggetti inanimati, in quell’esatto momento prega. È una preghiera altissima, a mio avviso una delle più alte della letteratura: un “insolito rispetto”, un’“esitazione involontaria”.

In questa postura del monatto, un “turpe monatto”, cioè l’esitare, fiorisce tutta la pietas del mondo. È come se dicesse, non ho altra parola da offrirti, nella mia “esistenza selvatica”, brutale, forse irriflessa, che quella di un gesto: esito con rispetto, quindi è come se pregassi, prima di portare via per sempre tua figlia.

Forse è proprio nell’esistenza “selvatica”, non inquinata dalla “buona educazione”, dalla notizia di cui rendere tutti partecipi, magari inducendo il pianto in nome e per nome dell’“auditel” o di certe pratiche morbose e “usa e getta” delle pagine social, che il pane della preghiera diventa croccante di umanità.

Fabio Gabrielli
Filosofo

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