Mafia, la storia dei corleonesi: intervista a Giulio Francese - QdS

Dal 1979 al 2023, la mafia che cambia e il cerchio che non si riesce a chiudere

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Dal 1979 al 2023, la mafia che cambia e il cerchio che non si riesce a chiudere

Roberto Greco  |
sabato 25 Febbraio 2023

Dal 1979, l’anno in cui tutto ebbe inizio, all’arresto di Messina Denaro. Un cronista negli anni Settanta aveva già capito tutto e lo racconta - in un'intervista al QdS - il figlio, Giulio Francese.

QdS ha incontrato Giulio Francese, già Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Sicilia, figlio di Mario Francese, il cronista de “Il Giornale di Sicilia” la cui morte mostrò l’approccio sanguinario dei corleonesi.

In un’intervista al noto giornalista, ricostruiamo tutta la storia recente della mafia siciliana, passando per il periodo delle stragi del ’92-’93 e arrivando fino al blitz che ha portato in carcere l’ultimo Padrino, Matteo Messina Denaro, a gennaio 2023.

La mafia e i corleonesi raccontati da Giulio Francese

Mario Francese fu ucciso il 26 gennaio 1979. Anche alla luce dell’arresto del 16 gennaio scorso di Matteo Messina Denaro, l’ultimo mafioso latitante appartenente alla compagine stragista dei corleonesi, possiamo identificare il 1979 come l’anno in cui tutto iniziò?

“L’ho sempre detto e, in effetti, è così. In quel 1979 parte l’assalto dei corleonesi su Palermo. Mario Francese è il primo nome eclatante che cade. A seguire, in breve tempo, assistiamo a una serie di omicidi eccellenti come mai era avvenuto in precedenza. Una sorta di golpe della mafia corleonese che punta in alto, cominciando a sferrare il suo attacco partendo proprio dal ‘palazzo’ della stampa”.

Perché è stato ucciso Mario Francese?
“Si è voluto colpire Mario Francese perché era un mastino che gli stava addosso che raccontava gli sviluppi della ‘nuova mafia’, come la definiva lui”, spiega il figlio Giulio Francese.

“Aveva iniziato a descrivere questa feroce mafia work in progress, quella dei corleonesi che, già dal 1975, aveva dato vita un’altra importante catena di delitti sul territorio. Era questo, quello di cui parlava e scriveva Mario Francese. Cominciò a parlare citando quei nuovi nomi, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, quelli che avevano preso il posto di Luciano Leggio dopo il suo arresto. Mario Francese, contrariamente alla quasi totalità dei suoi colleghi, definiva quella dei “liggiani” una mafia di serie A, capace di infiltrarsi non solo nel territorio siciliano ma in tutta la penisola. Soprattutto, poneva l’accento sulla loro capacità di stabilire nuove alleanze in Sicilia, con la mafia di S. Giuseppe Jato e con quella di Palermo, in particolare con quella di S. Lorenzo e dell’Acquasanta, e con quella di altri quartieri della città che poi, nel tempo, scopriremo essere importanti per lo sviluppo dei corleonesi stessi. Si trattava di una mafia che non si accontentava più delle briciole dei grandi affari e che trova un’occasione d’oro nella costruzione della diga Garcia, nella gestione di appalti e subappalti che rappresentarono un affare troppo grosso per lasciarselo sfuggire”.

La diga Garcia e gli anni Ottanta: la seconda guerra di mafia

Possiamo definire la diga Garcia “la madre di tutti gli appalti”?
“Certamente sì. Nasce in quell’occasione la cosiddetta mafia degli appalti. Mario Francese se ne occupò indagando in profondità anche perché si trattava di un’operazione economica di circa 300 miliardi di lire cui si ne aggiunsero, negli anni successivi, altri. Nell’affaire Garcia troviamo coinvolte imprese di primo piano anche a livello nazionale, tipo la Lodigiani che ritroveremo anche nelle vicende di Tangentopoli”.

“Mario Francese racconta questi nuovi interessi, queste nuove strategie della mafia corleonese e come quanto avesse messo in pratica nel territorio che comprendeva le province di Palermo, Trapani e Agrigento, potesse essere un sistema replicabile, come, in effetti, è stato. Rapidamente i corleonesi colpiscono il giornalista che non solo aveva descritto il malaffare, ma si era occupato anche di raccontare le vicende intime di Riina. Ricordiamo che fu il primo a intervistare la moglie Ninetta Bagarella, che aveva parlato di Leoluca Bagarella, del delitto di Ficuzza, del colonnello Russo, e di tutto il contesto. Probabilmente lo uccide perché si trattava dell’unico giornalista in grado di potere leggere le mosse future di quella mafia. Francese era il cronista di punta de ‘Il Giornale di Sicilia’ e il suo omicidio è da intendersi anche come un esempio per tutti i suoi colleghi”.

“In rapida successione, come in ogni golpe, dopo l’attacco al ‘palazzo’ della stampa, inizia l’attacco alle altre istituzioni: il 9 marzo è ucciso Michele Reina, politico della Democrazia Cristiana, il 21 luglio Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile, il 25 settembre il giudice Cesare Terranova, che tra il 1955 e il 1960 era stato il primo a mandare a processo per associazione a delinquere la mafia di Corleone, e Lenin Mancuso, il suo braccio destro. L’anno successivo, il 6 gennaio, tocca a Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, al capitano dei carabinieri Emanuele Basile, al Procuratore Gaetano Costa poi al Consigliere Rocco Chinnici e via via sino alle grandi stragi del ’92″.

In quei primi mesi degli anni ’80 inizia quella che fu definita la “seconda guerra di mafia”…
“Cambia la strategia mafiosa che ora punta in alto. Questo conferma le intuizioni di mio padre. Si parla spesso di quanto sia stato fondamentale Tommaso Buscetta. Certo che lo è stato ma, della commissione mafiosa e della sua struttura piramidale, dei contrasti all’interno della Commissione tra la ‘mafia dei guanti di velluto’ e i ‘liggiani’, Mario Francese ne parlava già nella seconda metà degli anni ’70. Le sue valutazioni, rivelatisi vere, al tempo erano sottovalutate e, spesso, dai suoi stessi colleghi viste come voglia di protagonismo”.

“In realtà, e le sue inchieste lo dimostrano, Mario Francese era soprattutto un cronista e, come tale, osservava la realtà, la analizzava e la scrivere. Nei giorni successivi alla sua morte fu definito “poco prudente” quando, in effetti, faceva semplicemente il suo lavoro e lo dimostra ancora una volta il fatto che molti dei nomi che lui citava li ritroviamo tra gli imputati al maxi-processo e in seguito hanno dominato le cronache mafiose. Nei suoi dossier, che ci sono rimasti come sua eredità professionale, troviamo non solo le inchieste sulla diga Garcia, su appalti e subappalti ma anche il racconto della nuova mafia, degli interessi e delle alleanze, anche con le famiglie camorriste. Era un cronista che non si accontentava di essere nelle aule in cui si celebravano i processi ma, come si dice, consumava la suola delle scarpe per trovare le notizie e per poter mettere assieme i pezzi”.

La morte del padre

Come reagì la città alla notizia della sua morte?

“All’indomani della sua morte ci fu una reazione di grande sofferenza, in questa città. Molte delle persone che lo conoscevano furono colpite dal delitto di un uomo perbene, generoso, un uomo che aiutava quanti ne avessero bisogno. In piazzale Campania ricordo una grande folla. Nelle sue cronache non si leggeva il cinismo ma il suo rispetto per l’umanità. Un grande collega del tempo, Anselmo Calaciura, lo definì un ‘cantastorie di nera’”.

I corleonesi dopo l’arresto di Riina

Quando, nel 1993, fu arrestato Totò Riina sembrò che la città tirasse un respiro di sollievo e, spontaneamente, scese in piazza, grande segnale successivo alle stragi del ’92. In realtà nel tempo le cose cambiano…

“Sì. Basta vedere quanto inferiore sia stata la reazione della città all’arresto di Provenzano e, ancor di più, a quello di Matteo Messina Denaro. Provenzano apparve al tempo dell’arresto come un povero vecchio inerme al contrario di Riina che apparve invece ancora battagliero. Oggi, dopo l’arresto di Messina Denaro, sento parlare di ‘chiusura del cerchio’. In realtà penso che la domanda principale sia ‘cosa succede ora’ e il ‘cerchio’ si chiuderà solo quando emergeranno i grandi segreti di cui Messina Denaro è depositario”.

Messina Denaro, le prospettive dopo l’arresto

“Non credo che parlerà. Nel tempo ha costruito il suo personaggio, il mito che lo rappresenta e non ritengo che lo voglia offuscare. L’operazione fatta è sicuramente importante e non dubito sulla sua trasparenza. Mi auguro che l’operazione continui e sortisca altri effetti. Mi riferisco a quella ‘borghesia mafiosa‘ di cui ha parlato il Procuratore De Lucia, che ha fatto affari e protetto la latitanza di Messina Denaro, parlo dei professionisti e dei massoni che hanno un nome e un cognome. Dobbiamo sapere chi ha lucrato con la mafia in questi anni nonostante le centinaia di morti innocenti”.

“Non possiamo dimenticare che la Sicilia ha pagato un prezzo altissimo, in termini di vite umane. Quando si dice che la Sicilia è mafiosa, io voglio invece sottolineare che proprio dalla Sicilia è partito il contrasto con un’attività antimafia forte, con molte persone che non si sono girate dall’altra parte, basta vedere quanti sono stati uccisi dalla mafia, giornalisti, magistrati, poliziotti e carabinieri, un prefetto, una sacerdote e molti commercianti. Persone che facevano semplicemente il loro dovere. La cosa che non sono mai riuscito a capire è quella sorta d’indifferenza, davanti ai molti morti ammazzati, come quando tu vai allo stadio e non parteggi per nessuna delle due squadre. Quello che successe, invece, fu una sorta di spettacolo irreale. In questa ‘guerra’ non si può rimanere osservatori. È necessario schierarsi e l’indifferenza indica una scelta opposta. Ognuno di quei morti, che hanno segnato la scansione del tempo da quel 1979 a oggi, rappresenta la volontà di essere se stesso, di essere ‘uomo’, di essere coerente con quello che faceva sapendo di rischiare e, forse, di dover morire”.

Una ‘borghesia mafiosa’ che viene da lontano…

“Sì perché nonostante tutto questo, in Sicilia, c’è chi ha continuato a lucrare, e parlo di architetti, ingegneri, banchieri, professionisti che hanno fatto affari con la mafia. Abbiamo il dovere di raccontare quest’altra realtà perché non ha le mani pulite ma le ha sporche si sangue. Questo potrebbe essere l’inizio di un percorso perché abbiamo bisogno di verità. Ricordiamo tutti la grande reazione di Palermo dopo la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, lenzuoli bianchi, catene umane, ma quant’è durata? Era sicuramente un passo avanti che questa città faceva dopo anni d’indifferenza, o meglio, di sofferta indifferenza. Ma quanti passi indietro si sono fatti in seguito?”

“Dopo l’arresto di Riina c’è stata la stagione processuale a Caltanissetta ma abbiamo visto com’è andata, tant’è che, dopo trent’anni, non abbiamo ancora la certezza della verità. Un passo avanti e due indietro. Nel tempo, la tensione nella gente si è affievolita, ma questa è la Sicilia. Pensiamo, ad esempio, alla morte di Veronica Guerin, la giornalista irlandese che aveva fatto della ‘ricerca della Verità’ la propria ragione di vita e che fu uccisa il 26 giugno 1996. La sua morte scatenò una forte reazione popolare, dimissioni di esponenti del Governo e la presa di coscienza di un ‘sentire’ diverso da parte della popolazione. Da noi, invece, si è stati a guardare aspettando la reazione dello Stato che ha fatto quello ha potuto. A tutt’oggi non è ancora chiara la questione della cosiddetta ‘trattativa’, non è ancora chiaro il depistaggio che ha condizionato il raggiungimento della verità nel processo Borsellino“.

Il ruolo dello Stato e la criminalità organizzata oggi

Uno Stato che continua a essere assente?
“Penso che la presenza dello Stato non possa essere solo quella ‘repressiva’, che c’è stata e ha prodotto ottimi risultati. In realtà, la sua assenza la possiamo percepire quotidianamente. Non parlo solo dello Stato a livello centrale ma in tutte le sue ramificazioni sul territorio. Dopo la prova di forza dell’arresto di Messina Denaro, è necessaria una grande presenza sul territorio, quel territorio in cui la mafia continua a reclutare giovani su cui esercita il ruolo che dovrebbe essere dello Stato, dando protezione, lavoro e sviluppo”.

“È necessario fare uno sforzo nei quartieri, là dove mancano i servizi essenziali, dove mancano centri di aggregazione per i giovani, dove i ragazzi a scuola muoiono di freddo perché manca il combustibile. Non vogliamo più sentire, com’è riportato ancora oggi nelle pagine dei giornali, di tangenti per piccoli e grandi appalti, denaro buttato dalla finestra durante una perquisizione. Quando morì mio padre avevo vent’anni e oggi quasi sessantacinque. Prima di chiudere definitivamente gli occhi, vorrei vedere uno scatto etico e di dignità per questa terra che ha molto da offrire ma molto anche da farsi perdonare”.

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