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Giovanni Pizzo  |
venerdì 25 Agosto 2023

Sull'odio la vicenda dello stupro di Palermo insegna che "c’è un Vannacci in ognuno di noi": il commento.

Molti si sono palesemente indignati degli stralci del libro del generale Vannacci. La sintesi, fatta dalla stampa era un inno all’Odio, una giustificazione e legittimazione dello stesso. Una parte della società italiana, che si immagina evoluta, o maggiormente progressista, ha tacciato il generale di pensiero retrogrado e involuto.

Poi, improvvisamente il vento è cambiato, è accaduto l’allucinante stupro di branco di Palermo. Si poteva pensare, immaginare, che quel Paese progredito, maturo dal punto di vista culturale, avanzato sul piano dei diritti civili, si chiudesse a riccio per prendersi amorevolmente cura della sfortunata ragazzina, che coprisse con una coltre di solidarietà e compassione, magari concreta, come una immensa raccolta fondi per il patrocinio giuridico della famiglia della vittima. Invece no. La vittima, a parte la indecente morbosità di taluni per scoprirne l’identità, è stata sostanzialmente dimenticata. La brutalità al singolo e al senso civile collettivo è passata in secondo piano rispetto ai colpevoli. Ci si è incentrati su colpa e colpevoli, ma soprattutto sulle pene. E qui torna il Comandante Vannacci e il suo concetto di odio e pene esemplari per gli stupratori.

Ho assistito a una valanga di “pena di morte”, “lapidazioni”, “castrazione chimica”, “lasciamoli al carcere di Pagliarelli dove avranno giustizia sommaria da parte dei detenuti palermitani”, fino “all’impalamento”. Quello che mi ha colpito è che la maggior parte di questi commenti provenivano da donne, il genere più lontano dal machismo del generale. Alcune, intelligentemente, Cartesio qualcosa ha prodotto, si sono poi scusate pubblicamente per il traboccante odio profuso dai loro post. Eppure si è palesato, in tutta la sua forza liberatoria, selvaggia, primordiale, il famoso diritto all’odio traspirante dalle pagine del libro del generale Vannacci.

Sembra che il problema quindi non sia più l’odio, ma chi lo propone, lo esplicita. Cioè non esiste un solo odio: c’è un odio “buono”, provato, espresso, da persone ontologicamente “giuste”, e un odio “brutto e cattivo” che promana dalle persone “sbagliate”. Sembra un classico di Sergio Leone, il buono, il brutto e il cattivo, in cui è chiaro che il ruolo del nemico cattivo, Lee Van Clef, appartiene a chi assomiglia culturalmente al generale, mentre i buoni, o le buone, hanno tutte gli occhi azzurri di Clint Eastwood. Forse si immaginano nei panni di Meryl Streep nei “Ponti di Madison Country”, non considerando le idee destrorse del vecchio, insuperabile, cineasta.

L’odio per le giuste cause (e chi decide cosa è giusto?) è quindi ammissibile, sdoganato, legittimo. Un ribaltamento totale del peace&love, di nessuno tocchi Caino, del garantismo costituzionale al giusto processo, anche a persone abiette, che ci fanno orrore e ribrezzo. Nella vicenda di Palermo quello che colpisce in maniera annientante è non la poca moralità, ma l’amoralità, assenza assoluta, cognitiva di un concetto mai pervenuto. Assieme a un dato ancestrale, Homo homini lupus, disconoscendo tutto da Hobbes in avanti, disconoscendo soprattutto lo Spinoza di Homo homini Deus, la sua umanità deificata. L’odio di Palermo ci ha riportati indietro, alla nostra cultura da primati, liberando le catene culturali che secoli di umanesimo avevano costruito. Di fatto, destra o sinistra, uomini o donne, progressisti o oscurantisti, c’è un Vannacci in ognuno di noi.

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