Scadente, di parte e persino corrotta: ecco come i siciliani percepiscono la Pa - QdS

Scadente, di parte e persino corrotta: ecco come i siciliani percepiscono la Pa

redazione

Scadente, di parte e persino corrotta: ecco come i siciliani percepiscono la Pa

Michele Giuliano e Dario Immordino  |
giovedì 20 Aprile 2023

Indici di qualità Ue, per la Sicilia performance tra le peggiori. Ma è tutta l’Italia a non fare bella figura. I cittadini siciliani non si fidano della Pubblica amministrazione

I cittadini siciliani non si fidano della Pubblica amministrazione. Trovano che sia di bassa qualità, poco imparziale e addirittura corrotta.

Questa è l’immagine, impietosa è dire poco, che viene fuori dalle opinioni raccolte dall’European quality of government index (Eqi), un indice calcolato dal Quality of Government (QoG) Institute, istituto di ricerca fondato nel 2004 all’interno del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Gothenburg.
L’indice serve a misurare la percezione della qualità del governo in 208 regioni distribuite in tutti in 27 membri dell’Unione europea.
E la Sicilia, nessuna sorpresa, si trova molto in basso in classifica, al 191esimo posto, con un indice Eqi del -1,36.

Tra le regioni italiane, peggio di noi hanno fatto solo Basilicata (196esimo posto), Campania (206esimo posto) e Calabria (207esimo posto). Il valore registrato è stato poi suddiviso in termini più specifici, relativamente ai tre temi trattati nel corso delle 129.000 interviste svolte. Per quanto riguarda il tema “qualità” in termini di servizi pubblici il valore è -1,10. Per l’imparzialità si tocca il -1,51, ed indica il rapporto sulla qualità del governo intesa come imparzialità nell’esercizio del potere pubblico sulla base di tre parametri: discriminazione e qualità del servizio. Infine l’altro indice della corruzione si fissa a -1,34 per la Sicilia, e si basa su esperienze dirette degli intervistati che hanno colto fenomeni corruttivi all’interno della Pa.

In generale l’Italia non fa una bella figura, considerato che tutte le regioni si trovano comunque al di sotto della centesima posizione della classifica, occupata dalla provincia di Trento, unica con segno positivo dello 0,01; nell’Unione europea l’indice varia in un range tra +2,28 (massimo grado di qualità detenuto dal territorio finlandese “Åland”) e -2,16 (grado minimo di Bucuresti–Ilfov in Romania).

Le regioni che occupano le posizioni migliori sono il Friuli Venezia Giulia, al 104esimo posto, il Veneto al 109esimo e la provincia autonoma di Bolzano, al 117esimo. Questo risultato non si configura soltanto una relazione difficile tra uffici istituzionali e società civile, ma si concretizza in un costo reale, molto importante, di sprechi economici dovuti all’inefficienza della Pubblica amministrazione. Si tratta di parecchi miliardi di euro.

Secondo l’ufficio studi della Cgia, che ha estrapolato i dati da diverse fonti, sono 57,2 miliardi di euro di costi per le imprese dovuti alla burocrazia, come certificato uno studio del The European House Ambrosetti (2019). Ci sono poi i debiti commerciali della Pa, certificati dall’Eurostat, nel 2022, per 55,6 miliardi di euro, e gli sprechi legati alle infrastrutture, per ben 40 miliardi, e altri 40 sono spesi per le inefficienze del ministero della Giustizia. Anche nella sanità si perdono tanti soldi inutilmente: ben 21 miliardi di euro, secondo quanto affermato nello studio della Gimbe “Evidence fot health”, del 2018.

Senza contare le inefficienze del trasporto pubblico locale che portano a tante spese: 12,5 miliardi di euro, secondo the European House Ambrosetti – Ferrovie dello Stato, del 2017. Un totale di 225 miliardi di euro l’anno, circa 11 punti percentuali del Pil nazionale. In Sicilia, una fetta di questi sprechi è sicuramente dovuta alle aziende pubbliche controllate dalla Regione, che in molti casi hanno bilanci in passivo. Si tratta di 71 enti, 13 società partecipate, 24 organismi strumentali e 55 in liquidazione. Solo il personale delle “partecipate” ha un costo di 235 milioni di euro. Una serie di aziende, che, secondo gli ultimi rilievi posti dalla Corte dei Conti, “si sono dimostrate geneticamente prive di sostenibilità economica.

Nonostante la consapevolezza della necessità di una priorità di razionalizzazione ‘alta’ dichiarata per quasi tutte le società partecipate nel piano, le soluzioni alle annose problematiche che persistono da tempo, continuano ad essere rinviate a futuri interventi”. Per tutta risposta è stata addirittura riattivata dal governo Meloni la partecipata “Stretto di Messina”, in liquidazione dal 2013: la società ha come scopo lo studio, la progettazione e costruzione di un’opera per collegamento viario e ferroviario tra Sicilia e continente.

Un assoluto e vero spreco, considerato che, sempre secondo la Corte dei Conti, “non è ammissibile che siano mantenute società pubbliche se il mercato può rispondere in maniera adeguata ed efficiente alla domanda di beni e servizi proveniente dalla pubblica amministrazione”.

L’inefficienza della Pa può causare ulteriori danni in questo momento cruciale per la gestione dei fondi del Pnrr per cui l’Italia è già in ritardo. Il rischio, secondo la Cgia, è che non si riesca a spendere al meglio neanche i fondi dell’Ue. Entro il 31 dicembre 2023, data di scadenza di attuazione del settennato 2014-2020, si devono spendere i restanti 29,8 miliardi (pari al 46% della quota totale) che ci sono stati erogati da Bruxelles, di cui 10 sono di cofinanziamento nazionale. Se non si riuscisse nell’intento, la quota di fondi Ue non utilizzatati andrà persa.

“Le ragioni di questa difficoltà nell’utilizzare i soldi europei è nota da tempo – scrivono dalla Cgia -. Scontiamo, innanzitutto, una grossa difficoltà di adattamento della nostra Pubblica amministrazione alle procedure imposte dall’Ue. Il personale, soprattutto dell’area tecnica, è insufficiente e quello occupato ha retribuzioni basse e, spesso, risulta, anche per questa ragione, poco motivato”.

“L’efficienza non si può imporre per legge, la semplificazione va applicata”

I dati European quality of government index consentono di cogliere la profonda distanza tra gli obiettivi e i risultati dell’attività amministrativa concepiti dalle strutture politiche e burocratiche e quelli percepiti dall’utenza.
Le criticità dell’apparato burocratico producono, inoltre, rilevanti effetti a carico del sistema economico sociale.
I costi della burocrazia sono da tempo chiamati in causa come i principali responsabili della difficoltà che affronta l’Italia nel fare impresa.

La recente relazione del presidente del Tar Sicilia evidenzia “un elevato grado di inefficienza della pubblica amministrazione siciliana”, rileva che “La percezione della sua presumibile capacità di gestire i programmi di investimento oggetto, tra l’altro, del Pnrr, è tutt’altro che positiva”, e delinea un apparato “incapace di onorare le proprie obbligazioni (ottemperanze), e gli elementari doveri procedimentali (silenzi e accessi)”.

E non si tratta neppure di un problema esclusivamente siciliano. La relazione del Presidente del Tar Lazio all’apertura dell’anno giudiziario certifica che nel 2022 sono stati depositati 16.850 ricorsi contro ministeri e Pubbliche amministrazioni. Quasi cinquemila ricorsi sono stati presentati per ottenere una risposta dalla Pubblica amministrazione a una istanza o l’attuazione di sentenze che riconoscono ai cittadini il diritto ad autorizzazioni, concessioni, provvedimenti favorevoli, prestazioni, servizi, finanziamenti. Ciò significa che troppo spesso i cittadini sono costretti ad agire in giudizio contro le amministrazioni pubbliche per ottenere ciò che spetta loro. E talvolta non basta vincere in giudizio, poiché per ottenere l’esecuzione delle sentenze favorevoli bisogna attivare un altro contenzioso.
Tutto ciò comporta, ovviamente, notevoli costi a carico di cittadini e imprese, ma anche dei bilanci pubblici, e lunghi tempi di attesa. E, nel campo della produzione, ma anche dei diritti, spesso il tempo ha un costo.

Il costo della malaburocrazia è molto difficile da quantificare, anche perché l’analisi degli effetti delle regole pubbliche e la misurazione degli oneri sopportati da cittadini e imprese nel rapporto con la pubblica amministrazione, imposte dalla legge da oltre 10 anni, non sono mai entrate pienamente a regime.

Secondo una recente stima dell’Istituto Ambrosetti il costo annuo dell’attività burocratica a carico delle imprese ammonta a 57,2 miliardi, pari allo stipendio annuale medio di quasi 2 milioni di lavoratori ed al 3,3% del PIL. Si tratta di “oneri di transazione”, che comprendono costi organizzativi e di consulenza e assistenza tecnica amministrativa, legale e finanziaria, spese procedurali, oneri per il contenzioso e così via.

L’Ufficio studi della Cgia ha recentemente quantificato in 14,5 miliardi il costo annuo della burocrazia locale (251 euro procapite, 334 per le amministrazioni comunali fino a 5 mila abitanti), e un report di PwC Italia certifica che per l’apertura di una nuova attività in Italia si spendono fino a 20mila euro fra tasse, costi per i consulenti e oneri procedurali, e che un’azienda può impiegare fino a 312 ore all’anno per compilare documenti e completare pratiche amministrative. Nel Mezzogiorno questi adempimenti possono impegnare fino a 1200 ore.

Al di là della quantificazione precisa dei danni a carico di cittadini e imprese, peraltro, la vasta gamma di forme di malaburocrazia rischia di erodere la capacità di spesa delle risorse del Piano di resilienza e rendere i quadri economico-finanziari non più sostenibili facendo lievitare il prezzo di appalti, servizi e prestazioni, e dilatare la durata delle procedure burocratiche e delle gare, le progettazioni, l’esecuzione delle opere, le liquidazioni. Simili evenienze comporterebbero conseguenze molto gravi: gare deserte, necessità di complesse procedure di adeguamento dei parametri economici e difficili trattative per incrementare il budget finanziario, gravi difficoltà delle imprese, lavori interrotti, opere incomplete, sospensione dei pagamenti dall’Europa e obbligo di restituzione di quanto incassato.

Le norme nazionali e regionali adottate negli ultimi anni hanno imposto elevati standard di qualità dei servizi e delle prestazioni pubbliche, la riforma del sistema di governo locale e dell’organizzazione burocratica regionale al fine di eliminare sovrapposizioni e conflitti di competenze che rallentano l’azione amministrativa ed inquinano le responsabilità, la semplificazione dell’attività amministrativa e delle procedure di appalto, la riforma delle regole contabili che paralizzano o rallentano la spesa pubblica.

A diversi anni dall’adozione di queste misure, però, le regole sulla semplificazione e sull’efficienza, in sostanza, sono rimaste sulla carta, a causa dell’incapacità di verificarne l’effettiva applicazione ed attuazione e le patologie che zavorrano il sistema economico sociale si sono cronicizzate, ed in certi ambiti addirittura aggravate. Ciò dimostra che l’efficienza non si può imporre per legge, ma richiede attente e costanti attività di monitoraggio e controllo e capacità di rilevare e sanzionare l’inefficienza, e che il nodo cruciale consiste nella capacità di calibrare l’attribuzione degli incarichi e il trattamento economico dei dipendenti pubblici in relazione a parametri concreti: rispetto dei termini procedimentali e delle disposizioni di semplificazione, condotta in conferenza di servizi, contenzioso provocato e relativi esiti, tempi di pagamento dei debiti verso le imprese.

Dario Immordino

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