Via D’Amelio: a trentun anni dalla strage il ricordo è vivo, la verità ancora parziale - QdS

Via D’Amelio: a trentun anni dalla strage il ricordo è vivo, la verità ancora parziale

redazione

Via D’Amelio: a trentun anni dalla strage il ricordo è vivo, la verità ancora parziale

Roberto Greco  |
mercoledì 19 Luglio 2023

Al QdS intervengono magistrati e parenti delle vittime nell’anniversario dall’uccisione di Borsellino e degli agenti della scorta

“Arrivammo a Villagrazia di Carini, ove il giudice Borsellino risiedeva con la famiglia per il periodo feriale, verso le 13:30 per il cambio turno. Erano passate da poco le 16 del 19 luglio 1992 quando – racconta al QdS Antonio Vullo, agente di scorta in servizio in quel tragico pomeriggio e unico sopravvissuto alla strage – partimmo per dirigerci verso Palermo al fine di raggiungere la casa della madre del giudice”. Tre auto sfrecciarono, ancora una volta, su quel tratto di autostrada che raggiunge Palermo, già scenario della strage di Capaci, appena 57 giorni prima.
Al loro passaggio sul luogo della strage, le auto trovarono la strada asfaltata, richiusa in fretta non si sa bene se per un improvviso efficientismo siciliano o per far sì che tutto rientrasse nella normalità quanto prima. Paolo Borsellino era al volante della Croma bianca. “All’arrivo in via d’Amelio – continua Antonio Vullo – notammo la presenza di diverse auto parcheggiate all’inizio della via. Il giudice Borsellino ci sorpassò e entrò nella via parcheggiando al centro della carreggiata”. Secondi che sembrano ore. Il livello di tensione era altissimo. La sensazione che il dottor Borsellino non fosse stato protetto a sufficienza era palpabile. Sull’auto che guidava Vullo c’erano Claudio Traina e Vincenzo Li Muli, tutti con poca esperienza nel reparto scorte. In quei mesi, tra di loro, era nata un’amicizia, una di quelle che, se avesse avuto tempo di svilupparsi, sarebbe diventata fortissima e che invece oggi appartiene ai ricordi tristi.

Sull’altra auto viaggiavano Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, un triestino che chiese il trasferimento a Palermo per dare il suo contributo, e Emanuela Loi, la prima donna a rimanere uccisa in servizio. “Parlando del giudice Borsellino – continua Antonio Vullo – Claudio Traina diceva ‘è uno di noi’ perché era un amico, un genitore, uno che non faceva pesare il suo ruolo di magistrato. Con Vincenzo avevo già lavorato al Servizio Mobile. Claudio, Vincenzo e io eravamo non solo un “equipaggio” ma tre persone con lo stesso intento e impegno. Emanuela l’avevo incrociata alcune volte in Caserma ma quel 19 luglio fu il primo giorno in cui lavorammo assieme. Ricordo il suo sorriso quando, prima di partire per Palermo, si avvicinò per guardare le foto dei bambini di Claudio e miei. Quando arrivarono per il cambio turno, appena Emanuela scese dall’auto qualcuno disse ‘finalmente un raggio di sole in mezzo ai barboni’. Non doveva esserci invece Walter, quel giorno perché era arrivata da Trieste la sua sostituzione”.

E poi il botto. Una Fiat 126 contenente circa 90 kg. di Semtex H, telecomandata a distanza, esplose e si portò via Paolo, Agostino, Claudio, Walter, Emanuela e Vincenzo. “Arrivai in via d’Amelio – racconta QdS Luciano, il fratello di Claudio Traina – e davanti a me, tra fumo e macchine in fiamme, c’era uno scenario di guerra. Tutto nero. I palazzi sventrati, mezzi dei Vigili del Fuoco, ambulanze. Non sapevo che Claudio fosse di scorta al dottor Borsellino, quel giorno. Camminando, sentivo sotto le scarpe lo scricchiolio dei vetri e dei detriti, fino a quando il fondo stradale diventò molle, vidi il sangue per terra. Ebbi la percezione che Claudio fosse lì, in mezzo a quell’inferno”. Quell’inferno in cui i resti umani si mescolano al ferro, ai detriti, all’asfalto, sino a formare una materia unica.

“Lo trovai, Claudio – continua Luciano -. Riconobbi la scarpa calzata dallo spezzone di una gamba, la sua. Claudio aveva 10 anni meno di meno ed entrò in Polizia per seguire le mie orme, che ero in servizio all’Antirapina. Nel 1991 fu trasferito a Palermo destinato all’Ufficio Scorte. Avevamo una passione comune, la pesca. Per quel 19 luglio mi aveva annunciato che sarebbe stato di riposo e mi chiese di preparare la mia piccola barca per uscire assieme a pescare. Andammo. Era nervoso e, dopo un paio d’ore, il suo sorriso sparì e mi disse che gli era stato cancellato il turno di riposo e nel pomeriggio avrebbe dovuto lavorare. Mi chiese di tornare in banchina. Fu l’ultima volta in cui lo vidi vivo”.

Tornare a casa la sera e vivere l’assenza. Tornare a casa la sera e cercare di colmare un vuoto. Inutilmente. “Mi manca la normalità che c’era in famiglia”, racconta al QdS Salvatore, fratello di Agostino Catalano. “In questo momento ho davanti a me una fotografia che ritrae di Agostino. Vedo i suoi occhi tristi ma sorridenti. I ricordi sono al tempo stesso lieti e tristi. Aveva compiuto 43 anni da poco, il 16 maggio e aveva sei anni più di me. Ricordo che quando a diciott’anni partì, mi regalò un completo da calciatore. Ricordo le cene in famiglia, i compleanni di mio padre. Tutto questo mi manca. Lo vedo là, in via d’Amelio, di fianco al giudice Borsellino, prima dell’esplosione, in attesa”.

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