Lo Stato “percepito” è il terzo settore: un siciliano su 4 si fida del non profit - QdS

Lo Stato “percepito” è il terzo settore: un siciliano su 4 si fida del non profit

Antonio Leo

Lo Stato “percepito” è il terzo settore: un siciliano su 4 si fida del non profit

martedì 07 Maggio 2013

Si tratta di un mondo in crescita, con un giro d’affari di 45 miliardi di euro e 467 mila organizzazioni. Ma serve più trasparenza. E il 20% dei cittadini vorrebbe che siano gli enti non lucrativi a guidare il cambiamento

PALERMO – Lo chiamano ancora terzo settore, ma dopo le ultime indagini conoscitive si dovrebbe parlare di “secondo Stato”. Perché se ufficialmente il Welfare state è garantito dai canali ortodossi della Repubblica, in realtà ad ammortizzare le drammaticità quotidiane dei ceti più bassi, ormai allargati a fasce della popolazione prima considerate benestanti, sono sempre più le associazioni non profit.
 
Un mondo in crescita costante, con numeri da capogiro e con una marcia in più: la fiducia dei cittadini. Delusi da una politica avidamente abbarbicata a privilegi pluridecennali, scontenti di una magistratura a volte troppo appariscente o usata come un taxi per le aspirazioni dei singoli, insoddisfatti da sindacati che di fronte alla crisi possono poco, il popolo minuto e i nuovi poveri trovano negli enti senza scopo di lucro un porto sicuro e un aiuto concreto. La fotografia è stata scattata da una ricerca statistica di Roberto Porciello, responsabile di Focus Marketing. L’immagine è eloquente: oltre un cittadino su quattro del Mezzogiorno preferisce le organizzazioni di volontariato alle altre Istituzioni.

Mi fido di te.

Focus marketing ha chiesto a siciliani, pugliesi, calabresi e campani quali sono le Istituzioni verso cui nutrono maggiore fiducia. Il 26% degli intervistati ha risposto “volontariato e non profit”, il 24% “forze dell’ordine” e il 23% “magistratura”. Il che da un’idea complessiva di come il triangolo solidarietà, sicurezza e giustizia sia avvertito come prioritario a Sud della Capitale. Crolla la fiducia nelle istituzioni religiose (ma almeno per la Chiesa cattolica bisognerebbe aspettare “l’effetto Bergoglio”) ferme al 6% e, come era ampiamente prevedibile, misera è la considerazione di “Governo” e “politici”, di cui si fidano rispettivamente il 5 e il 2 per cento dei meridionali interpellati.
La notizia che emerge, comunque, è un’altra. Con la fiducia, contestualmente, crescono di pari passo le aspettative. Premesso che la stragrande maggioranza dei cittadini (il 63%) ritiene indispensabile cambiare classe dirigente per uscire dalla crisi, una buona parte di essi (il 19%) affiderebbe la guida di questo cambiamento proprio al terzo settore. Porciello ha provato a dare una sua spiegazione del fenomeno. “La spiegazione – ha detto – sta in una risposta in particolare. Quando si chiede di indicare i tre problemi principali del Paese gli italiani rispondono: disoccupazione, povertà e crescita economica”. Ad almeno due di essi fa fronte proprio l’universo delle organizzazioni di volontariato.
Numeri importanti.
Sono 467 mila gli Enti “non profit”. Danno lavoro a circa 630 mila persone e si avvalgono di una forza operativa di quasi 5 milioni di volontari. In totale il mondo del terzo settore genera un giro d’affari stimato in 45 miliardi di euro, con un peso in termini di Prodotto interno lordo tra il 4 e il 5 per cento. Numeri che fanno il paio con il comparto degli alberghi e ristoranti. Ma con una grande differenza: si tratta di dati che sembrano non conoscere crisi. Le organizzazioni non governative mostrano un aumento del 6,3%, passando da 239 unità del 2001 a 251 del 2013, le cooperative sociali crescono del 55,8% da 6.159 unità del 2003 alle odierne 13.938. Addirittura le Fondazioni sono passate da circa 3.000 a quasi 5.000 unità, facendo registrare un +136%.
E i margini per migliorare restano alti, come dimostra un’altra ricerca di Ipr marketing. Nonostante la crisi, infatti, nel 2012 il numero dei donatori si è attestato sui livelli dell’anno prima. Anzi è lievemente aumentato, passando dal 33 al 35 per cento. Certo non siamo ai livelli del 2010, quando addirittura la quota dei benefattori era del 49%, ma rispetto allo stato delle cose si trattano di risultati incoraggianti.

Ma lo “spread” Nord-Sud resta alto.

Nonostante il consenso popolare, il divario tra il cuore produttivo del Paese e il Mezzogiorno è ancora elevato. Al Centro-Nord, infatti, si concentrano il 47,8% degli operatori, mentre al Sud soltanto il 30%. È un fatto non da poco, però, che nel periodo 1999-2011 il Sud sia cresciuto del 115% rispetto al +99 della media nazionale. Per fare il salto di qualità, e di quantità, sarà necessario sciogliere alcuni nodi: su tutti la mancanza di sinergia tra le associazioni del Mezzogiorno e la conseguente frammentazione delle risorse, a discapito della qualità dei servizi erogati.

Cresce il valore, crescono le responsabilità.

Il consenso e il valore economico delle istituzioni senza scopo di lucro pone nuove questioni. A partire dalla necessità di assicurare una maggiore trasparenza e coinvolgimento dei donatori nelle scelte decisionali. Anche perché, come ha certificato un recente rapporto di Amrop, almeno “5.000 onlus sono ormai delle vere e proprie organizzazioni, con strutture stabili sul modello di una piccola impresa”. E con manager pagati tra i 50 mila e i 150 mila euro l’anno.


Guida (minima) per conoscere l’abc del mondo variopinto degli enti senza scopo di lucro

PALERMO – Il terzo settore comprende un universo giuridico molto vasto, che il legislatore italiano fondamentalmente ha riassunto in poche forme tipiche, molto simili e molto diverse al tempo stesso. Qui ne citiamo cinque: le Onlus (Dlgs 460/1997), le organizzazioni non governative (L 49/1987), le organizzazioni di volontariato (L 266/1991), le cooperative sociali (L 381/1991) e le associazioni di promozione sociale (L 383/2000).
La cosa che va messa subito in evidenza e che rappresenta il minimo comune denominatore di queste forme d’aggregazione è “l’assenza di lucro”, cioè il divieto di distribuire nel corso della vita dell’ente, anche per via indiretta, gli utili, gli avanzi o le risorse disponibili dell’ente stesso. Gli altri due requisiti fondamentali consistono nell’obbligo di rimpiegare gli utili nella realizzazione dei fini istituzionali e nel dovere di devolvere il patrimonio dell’ente, in caso di sua estinzione, a favore di un altro ente non profit o a fini di pubblica utilità.
Invero la locuzione “assenza di scopi di lucro” è stata oggetto di varie dispute in dottrina e giurisprudenza. Da essa sono state ricavate due categorie. Esiste, infatti, “un’assenza soggettiva”, quando le persone che fanno parte dell’ente non hanno interessi economici o patrimoniali nella realizzazione delle attività (un requisito perentorio per le organizzazioni di volontariato) e “un’assenza oggettiva”, quando l’organizzazione ha modalità di gestione che prevedono la possibilità di fare profitto ma non è questo il suo fine. In generale si può affermare che per le organizzazioni di volontariato, iscritte nei registri tenuti dalle Regioni o dalle Province, l’assenza di scopo di lucro soggettivo debba essere assoluta. Per tutti gli altri enti non profit il divieto non è così netto, anche se deve permanere nei fatti.

Onlus.
Qualora le forme aggregative di cui sopra abbiano i parametri stabiliti dal Dlgs 460/1997, possono essere inquadrate nella disciplina da esso riservata alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale, le cosiddette Onlus. Quest’ultime, invero, devono avere delle finalità specifiche, ma talmente vaste che all’interno potrebbe rientrare tutto lo scibile di ciò che solitamente fa una tipica associazione non profit: assistenza sociale e socio sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela del patrimonio artistico, storico e ambientale, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica di particolare interesse sociale.
Relativamente ai limiti, non lascia spazi ad equivoci l’art. 10, comma 6, del decreto legislativo 460/1997 che specifica cinque casi di esclusione dal novero delle Onlus (in quanto si tratterebbe di distribuire utili o avanzi di gestione):
– Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, effettuate a condizioni più favorevoli in ragione della loro qualità a soci, consiglieri, donatori, componenti di organi di controllo (nonché ai loro parenti entro il terzo grado ed ai loro affini entro il secondo…);
– L’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale;
– La corresponsione ai componenti gli organi amministrativi e di controllo di emolumenti individuali annui superiori al compenso massimo previsto per il presidente del collegio sindacale delle società per azioni;
– La corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di 4 punti al tasso ufficiale di sconto;
– La corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche.
Va detto, infine, che una Onlus può incassare proventi dalle attività connesse in misura non superiore al 66% delle spese totali dell’ente.

Organizzazioni di volontariato.
Secondo gli artt. 2-3 della legge 266 dell’11 agosto 1991, per organizzazioni di volontariato si intende “ogni organismo liberamente costituito” che si avvale dell’attività di volontariato che “deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”. È assoluto, dunque, il divieto per qualunque aderente (sia esso il presidente dell’associazione o un semplice consigliere) di ricevere un qualsivoglia compenso. Sono, tuttavia, possibili i rimborsi per le spese effettivamente sostenute (ma mai il rimborso potrà essere forfettario e dovrà essere supportato da “pezze” giustificative).

Associazioni di promozione sociale.
Le associazioni di promozione sociale possono essere definite come quelle organizzazioni in cui gli individui si associano per perseguire un fine comune non di natura commerciale. La differenza con le associazioni di volontariato sta nella possibilità di remunerare i propri soci e nella valenza mutualistica dei servizi.

Cooperative sociali.
In base all’art. 1 della legge 381/1991, le cooperative sociali hanno lo scopo di “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione e all’integrazione sociale dei cittadini”. Possono essere di due tipi: vi sono le Cooperative di tipo “A”, che si occupano della gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, e le Cooperative di tipo “B” che svolgono diverse attività (agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Nelle loro compagini sociali è possibile individuare tre tipologie di soci: lavoratori, fruitori e finanziatori. È possibile, inoltre, che gli statuti prevedano la presenza di soci volontari, che prestino la loro attività gratuitamente.

Ong.
L’acronimo Ong sta per Organizzazione non governativa: un termine che indica una organizzazione o associazione locale, nazionale o internazionale di cittadini che non sia stato creato dal Governo, e non faccia parte di strutture governative, e che sia impegnato nel settore della solidarietà sociale e della cooperazione allo sviluppo. La legge 49/87 sulla Cooperazione definisce idonee le Ong che, dopo un’istruttoria molto selettiva, ottengono dal ministero degli Esteri un riconoscimento di idoneità per la gestione di progetti di cooperazione.

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