Mafia, il boss Musto e i legami con il clan Cappello

Uccidere per evitare la ribellione contro il pizzo. Il boss Musto e i killer vicini al clan Cappello

Antonino Lo Re

Uccidere per evitare la ribellione contro il pizzo. Il boss Musto e i killer vicini al clan Cappello

Simone Olivelli  |
venerdì 29 Dicembre 2023

Si tratta della storia più inquietante tra quelle che hanno visto protagonisti i Musto: nel mirino un imprenditore

Con il viso coperto da passamontagna e maschere a forma di teschio. È così che, a gennaio scorso, due uomini avrebbero dovuto fare irruzione all’interno di una rivendita di prodotti elettronici di Niscemi per ucciderne il titolare. A ideare il piano, annullato all’ultimo momento e poi rimandato in seguito all’arresto di un complice dei killer, sarebbero stati i fratelli Alberto e Sergio Musto, arrestati la scorsa settimana nel blitz che ha colpito la famiglia di Cosa nostra attiva nel centro del Nisseno.

Si tratta della storia più inquietante tra quelle che hanno visto protagonisti i Musto, la cui tracotanza si sarebbe manifestata anche con eclatanti intimidazioni nei confronti di esponenti delle forze dell’ordine e soprusi ai danni dei concittadini meno propensi a riconoscere la loro leadership criminale. Tra loro c’era proprio quell’imprenditore che, dieci anni prima, aveva avuto il coraggio, insieme al fratello, di denuncia alle forze dell’ordine una tentata estorsione subita da Alberto Musto. Uno dei motivi per cui il maggiore dei fratelli era stato condannato a trascorrere oltre sette anni dietro le sbarre, fino al 2021 quando, lasciato il carcere di Voghera, è tornato a casa per prendere in mano le redini della cosca e – secondo i magistrati della Dda di Caltanissetta – farla pagare a chi aveva osato ribellarsi. La vendetta, nell’ottica dei fratelli Musto, avrebbe dovuto acquisire tratti paradigmatici. Far capire a ogni niscemese che alzare la testa contro Cosa nostra avrebbe portato soltanto a una cosa: morire.

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Lezioni di morte

“Io mi sono fatto la galera e quelli non li ha toccati nessuno. Un’azione del genere, se non viene punita…” Alberto Musto avrebbe ritenuto particolarmente rischioso tornare a Niscemi senza intervenire violentemente nei confronti dei due imprenditori che, nel 2013, avevano resistito alla richiesta di pagare cinquemila euro a titolo di pizzo. Gli investigatori hanno monitorato il proposito del 37enne a partire dal 2022, pochi mesi dopo il ritorno in libertà, a riprova del livore covato dall’uomo. Ma oltre all’affronto personale, per Musto ci sarebbe stata in ballo anche la credibilità della stessa famiglia mafiosa. Se tutto fosse andato avanti come se nulla fosse “il popolo” avrebbe potuto pensare “denunciamo e non ci succede niente”. Se invece, è il ragionamento ricostruito nell’ordinanza firmata dalla gip Graziella Luparello, “poi gli succede una cosa di quella” ogni niscemese avrebbe pensato: “Vedi come gli è finita?”.

Per la giudice per le indagini preliminari, Musto, che per accreditarsi all’interno di Cosa nostra avrebbe vantato il legame del padre con Antonio Di Cristina, boss ucciso a Riesi nel 1987 dopo esserne stato anche sindaco, avrebbe temuto che l’atto “di ribellione alla tassazione mafiosa poteva assumere valenza eversiva rispetto al generale, diffuso e totalizzante controllo del territorio da parte della famiglia mafiosa e stimolare l’assunzione di comportamenti emulativi”. Ovvero proprio ciò che magistrati e parti della società civile impegnate nel contrasto al racket invitano a fare da anni.

Ad accendere gli animi di Musto e dei suoi sodali sarebbe stata anche la considerazione di cui godono gli imprenditori: “Lo vantano, lo vantano”, diceva il 37enne, sottolineando che sarebbero potuti passare “anche mille anni” ma la vendetta sarebbe stata servita.

Due uomini del clan Cappello

L’indagine ha raccolto diversi episodi in cui i fratelli Musto vantavano reciprocamente azioni atte a intimidire gli imprenditori. Sguardi, fugaci frasi minacciose, passaggi in auto e davanti ai loro negozi. Provocazioni da lanciare soprattutto in assenza di testimoni: “Non c’era nessuno là, telecamere non ce n’erano”, assicurava Alberto Musto dopo avere incrociato una delle vittime.

A inizio 2023, però, la situazione sarebbe precipitata al punto che per gli inquirenti Musto avrebbe incaricato due uomini di uccidere il titolare della rivendita di elettrodomestici. I fatti accadono a fine gennaio, quando a Niscemi a bordo di una Porsche Cayenne arrivano Giuseppe Auteri e Renè Di Stefano. Per gli investigatori si tratta di due soggetti contigui al clan catanese dei Cappello. Insieme ad Auteri e Di Stefano, su una terza vettura, c’è un 23enne che avrebbe dovuto fare da palo per poi aiutare i due presunti killer a fuggire dal luogo dell’agguato.

L’incontro tra Musto, Auteri e Di Stefano viene monitorato da vicino. La coppia sarebbe stata pronta a entrare in azione, nonostante la vittima designata non fosse stata individuata con certezza. A nutrire perplessità sarebbe stato lo stesso Musto, l’uomo che più di tutti avrebbe voluto vedere morto l’imprenditore. “Vabeh, se la fa dietro il banco, no?”, prova a persuaderlo Auteri. Mentre Di Stefano si sarebbe mostrato più cauto: “Non ci puoi sparare in mezzo agli innocenti”.

Alla fine, a spuntarla sarebbe stato il reggente della cosca niscemese, secondo il quale l’agguato era da rimandare al momento in cui la coppia di killer sarebbe stata in possesso di una fotografia della vittima: “Fagliela fare da un picciriddo (ragazzino, ndr), magari con la scusa che gioca con il telefono”, suggerisce Auteri. 

L’arresto dei palagonesi

Per i due uomini vicini ai Cappello l’occasione di uccidere l’imprenditore che aveva denunciato Musto non si ripresenterà. Consapevole del rischio imminente, la guardia di finanza arresta prima il 23enne che faceva da palo, recuperando una pistola e il vestiario che sarebbe stato usato per entrare nel negozio, e poi, pochi giorni dopo, Auteri, trovato in possesso di un grosso quantitativo di sostanze stupefacenti. La sete di vendetta dei Musto, tuttavia, sarebbe rimasta: i fratelli, stando alle carte dell’indagine, avrebbero pensato di chiedere un aiuto ad alcuni soggetti legati alla mafia gelese. “Domani mattina stesso te lo sdirrupo (butto giù, ndr)”, avrebbe assicurato uno dei potenziali sicari a metà settembre.

Asaec: “Non farsi intimorire”

Nonostante la vicenda si sia conclusa con un nuovo arresto di Alberto Musto, e con lui anche del fratello Sergio, e gli imprenditori finiti nel mirino abbiano anche nel corso del 2023 denunciato le intimidazioni ricevuta dagli esponenti della cosca, quanto emerso dall’inchiesta Mondo opposto potrebbe avere riflessi negativi nella lotta al racket. La pianificazione dell’omicidio, infatti, ha riportato alla mente i tempi più bui della storia siciliana. A lanciare un appello affinché l’esempio degli imprenditori niscemesi venga replicato anche altrove è l’associazione antiracket Asaec di Catania: “L’operazione della polizia ha dimostrato come le forze dell’ordine riescano a prevenire eventuali forme di ritorsione nei confronti di quei coraggiosi imprenditori che hanno deciso di denunciare – dichiara al QdS il presidente Nicola Grassi –. Il nostro messaggio è quello di non scoraggiarsi e anzi continuare a ribellarsi, certi che lo Stato mette in campo ogni possibile forma tutela e di ristoro economico a favore delle vittime del racket”.

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