Siccità e reti idriche colabrodo, in Sicilia doppia calamità naturale e infrastrutturale - QdS

Siccità e reti idriche colabrodo, in Sicilia doppia calamità naturale e infrastrutturale

redazione

Siccità e reti idriche colabrodo, in Sicilia doppia calamità naturale e infrastrutturale

Roberto Greco  |
mercoledì 21 Febbraio 2024

Invasi semi vuoti e precipitazioni scarse, ma intanto nelle condotte dell’Isola si continua a disperdere oltre il 50% dell’acqua immessa. Il riutilizzo dei reflui per l’agricoltura è quasi un miraggio nel Mezzogiorno, anche perché mancano i depuratori

Rete idrica fatiscente, invasi insufficienti e inadeguati, irrigazione a scartamento ridotto. È questa la drammatica situazione che rappresenta lo stato dell’arte riguardante la gestione delle risorse idriche, nel loro insieme, nella Sicilia in cui è stato dichiarato lo stato di calamità eccezionale per la siccità. Una calamità che, però, a guardare bene i numeri è anzitutto infrastrutturale.

A Ragusa la dispersione idrica è pari al 63%

Le perdite idriche regionali, secondo l’Istat, in Sicilia raggiungono il 52,5% e che le misure di razionamento dell’erogazione dell’acqua hanno coinvolto il 16,7% dei residenti delle città capoluogo. Come se non bastasse, sempre secondo i dati diffusi da Eurispes riferiti al Rapporto Istat, la situazione della rete idrica siciliana è ben delineata attraverso il dato che indica la dispersione idrica della rete. La maglia nera dell’isola spetta a Ragusa, in cui la dispersione è pari al 63%, seguita da Siracusa, 60%. Non virtuose le reti idriche delle due principali città dell’isola, Palermo e Catania, il cui dato di dispersione è, rispettivamente, del 48,8% e del 55,4%.

I danni per agricoltura e allevamento

“La Sicilia è l’unica regione d’Italia e tra le poche d’Europa in zona rossa per carenza di risorse idriche – si legge in una nota rilasciata della Presidenza della Regione Siciliana lo scorso 9 febbraio -. Stessa situazione si ritrova in Marocco ed Algeria. Una condizione che sta danneggiando agricoltori e allevatori, già gravati dalle conseguenze dei fenomeni atmosferici anomali che hanno colpito l’Isola per tutto il 2023. L’allevamento degli animali è il settore più colpito per l’assenza di foraggio verde e la mancanza di scorte di fieno danneggiate dalle anomale precipitazioni del maggio dell’anno scorso”.

Valorizzare il riuso delle acque depurate

La nota è seguita dopo la riunione di Giunta nel corso della quale è stato dichiarato, su proposta dell’assessore all’Agricoltura, Luca Sammartino, lo stato di emergenza nell’intero territorio regionale. Ora, per la Regione Sicilia, sembra arrivato il momento di valorizzare il riuso delle acque depurate in agricoltura, nell’industria e per usi civili e ambientali ma soprattutto mettere mano alla rete idrica. Ancora una volta un motore, quello regionale, che come tutti quelli alimentati a gasolio ha bisogno di poter rimanere acceso per un po’ di tempo per dare il massimo delle prestazioni. Sì perché era il 27 aprile 2023 quando fu ratificato l’accordo di programma quadro stipulato fra il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica e la Regione Siciliana e fu dato il via libera al finanziamento di 1,2 milioni di euro per la realizzazione di sette interventi alle condotte fognarie e agli impianti di depurazione in tutta la Sicilia, collegati a eventi calamitosi.

Solo qualche giorno fa, il 6 febbraio scorso, tramite un decreto attuativo della legge regionale 4/2022, la Regione Siciliana ha recepito quanto previsto dall’articolo 2, in accordo con il Regolamento dell’Unione Europea 741/2020 del Parlamento europeo e del Consiglio, recante le prescrizioni minime per il riutilizzo dell’acqua. Si tratta di un atto normativo che definisce per la prima volta a livello europeo i requisiti minimi per l’utilizzo delle acque c.d. di recupero, le acque reflue urbane che sono state trattate e poi affinate, per scopi agricoli, in modo sicuro, proteggendo la salute e l’ambiente. Il riutilizzo rappresenta una misura ambientale che ha lo scopo fondamentale di diminuire il prelievo di acqua dai corpi idrici per tutelarne lo stato quali-quantitativo e preservare le acque di elevata qualità per gli usi prioritari, per primo l’uso potabile, in una logica di economia circolare.

Ma la vicenda “acqua alla siciliana” si è sviluppata all’ombra di un’indagine, condotta dai militari dell’Arma dei Carabinieri, sulla gestione tecnico-operativa dei depuratori delle acque reflue ad Acqua dei Corsari, Balestrate, Carini e Trappeto che ha evidenziato una gestione irregolare dei depuratori e lo sversamento in mare di fanghi provocando, anche, l’inquinamento dell’area protetta del golfo di Castellammare. Secondo la ricostruzione dei carabinieri forestali e della stazione di Balestrate, i “fanghi di depurazione e altre sostanze inquinanti” sarebbero stati trattati abusivamente nel depuratore di Acqua dei Corsari, a Palermo, e in quelli di Balestrate, Carini, Trappeto e Partinico. Il 18 gennaio scorso il gup Andrea Innocenti ha rinviato a giudizio l’attuale amministratore unico di Amap e gli ex vertici della partecipata che gestisce il servizio idrico a Palermo e in provincia dopo l’inchiesta sulla gestione irregolare dei depuratori e lo sversamento in mare di fanghi. La data del processo è stata fissata per il prossimo 10 aprile con il rinvio a giudizio di Maria Prestigiacomo, ex presidente Amap e già assessore della giunta Orlando, e Alessandro Di Martino, attuale amministratore unico della municipalizzata. Con loro, inoltre, a processo anche i dirigenti Angelo Siragusa, Adriana Melazzo e Dorotea Vitale, che a vario titolo si sono occupati della gestione degli impianti idrici.

Qual è lo stato del riuso delle acque reflue in Sicilia?

Ma qual è, al netto delle programmazioni future e dei procedimenti giudiziari in corso, lo stato del riuso delle acque reflue in Sicilia? I dati di Arpa Sicilia (l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, ndr) indica che in ambito regionale risultano censiti complessivamente 463 impianti di trattamento delle acque reflue urbane, di cui il 17% circa risulta non attivo mentre dei 388 impianti attivi complessivamente presenti sull’Isola, solo il 20% circa opera attualmente con autorizzazione allo scarico in corso di validità. Tutti gli altri operano in assenza di autorizzazione o con autorizzazione attualmente scaduta o sono stati destinatari di decreti di diniego allo scarico.

Ma, se la Sicilia, non primeggia nell’ambito del riuso delle acque reflue, nemmeno l’Italia, nel suo insieme, produce risultati incoraggianti. Secondo i dati del laboratorio “Ref ricerche”, nonostante la crisi climatica in corso, e con le sempre più ricorrenti e pesanti fasi di siccità, in Italia i reflui potenziali che raggiungono una qualità tale da essere destinati al riutilizzo sono mediamente il 23% del volume depurato, con punte del 41% nel nord-ovest e valori più bassi nel centro (6%) e inoltre solo il 4% risulta effettivamente destinato al riutilizzo, principalmente per uso irriguo, e quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali.

La rete idrica un colabrodo, il riuso delle acque un miraggio

Mentre la rete idrica resta un colabrodo e il riuso delle acque un miraggio, come riporta il report settimanale dell’Osservatorio sulle Risorse Idriche di Anbi, alcuni bacini in Sicilia, Sardegna e Puglia sono in grave difficoltà. In Sicilia, la seconda metà del 2023 è stata la più arida da oltre un secolo: da settembre a dicembre, la mancanza complessiva è di circa 220 millimetri di pioggia, mentre il solo ultimo mese dell’anno ha registrato deficit di precipitazioni fino al 96% su alcune località tra le province di Enna e Catania. Se l’annuale bilancio regionale non risulta altrettanto drammatico, con circa 160 millimetri in meno rispetto alla media, lo si deve quasi esclusivamente agli eventi estremi, che hanno colpito l’isola nella prima metà dello scorso anno. Andando a guardare il report dell’Autorità regionale di bacino a gennaio si registra uno scarto del 18% rispetto all’anno precedente con invasi che presentano quasi tutti valori negativi, con punte che fanno impressione: Pozzillo avrebbe una capacità di 150 milioni di metri cubi, ma ne contiene attualmente poco meno di 4 milioni.

Il piano della Regione per intervenire sulle dighe

La condizione dei bacini siciliani non consente più di assolvere pienamente né alla loro funzione calmieratrice delle piene né tantomeno a quella di riserva di acqua. Ora la Regione Siciliana vara un piano da 150 milioni per intervenire sulle dighe e far fronte alla carenza di acqua nell’isola ma i fondi, però, devono essere ancora trovati. Ed è solo una delle azioni messe in campo dall’Osservatorio regionale sugli utilizzi idrici, istituito per volontà del presidente della Regione Renato Schifani, e coordinato dal segretario generale dell’Autorità di bacino del distretto idrografico della Sicilia, Leonardo Santoro. Tra le altre azioni messe in campo, il monitoraggio delle attuali risorse idriche, l’individuazione di altre fonti di approvvigionamento, la riduzione delle perdite, l’interconnessione tra le condotte degli invasi, l’utilizzo razionale dei quantitativi d’acqua disponibili.

Ma tutto ciò succede mentre la situazione nelle campagne si fa veramente complicata e dai rubinetti delle abitazioni si nota il primo segnale, il calo di pressione. I volumi d’acqua negli invasi siciliani sono sotto il livello di guardia e, spiegano dall’assessorato regionale all’Agricoltura, il mese di gennaio è stato il quinto consecutivo con precipitazioni inferiori alla norma del periodo facendo così registrare un deficit di circa 200 millilitri di acqua e nonostante qualche pioggia, si registra una marcata differenza territoriale tra le aree costiere e le aree interne del palermitano, del nisseno, dell’ennese e della piana di Catania.

Intervista a Tania Tellini, coordinatrice del settore acqua di Utilitalia

“Con l’acqua trattata l’Isola può coprire fino al 60% del suo fabbisogno agricolo”

Tania Tellini, coordinatrice delle attività del settore acqua di Utilitalia

Interviene al QdS Tania Tellini, coordinatrice delle attività del settore acqua di Utilitalia.

Dottoressa Tellini, qual è lo stato dell’arte della depurazione delle acque in Italia?
“Sono ancora in corso quattro procedure d’infrazione comunitarie che riguardano sia il collettamento – ci sono ancora agglomerati non dotati di reti fognarie adeguate – sia la depurazione, che può riguardare scarichi in aree sensibili alle emissioni di azoto e fosforo, sia in aree non sensibili, ossia nelle normali acque superficiali. Per il sistema Paese tutto ciò ha un costo rilevante perché la prima procedura d’infrazione, già arrivata alla condanna, ci costa 165.000 euro al giorno mentre per le due successive, nonostante sia già stata comunicata la sentenza di condanna, ancora non è iniziata la corresponsione delle quote che saremo costretti a pagare se non risolveremo in tempi molto brevi le non conformità. La quarta, invece, è ancora nella fase istruttoria ma anche per questa rischiamo la condanna. Lo Stato italiano sta procedendo più celermente possibile e, a tal proposito, è stata introdotta la figura del Commissario Straordinario per la Depurazione”.

E in Sicilia?
“La Sicilia è una delle regioni nelle quali si concentra il maggior numero d’impianti non idonei, impianti anche di dimensioni importanti, per intenderci con capacità superiore ai 10.000 abitanti equivalenti. Proprio per questo tutti i Commissari che, nel tempo, si sono succeduti, hanno prestato particolare attenzione alla Sicilia”.

Quanto è importante il riuso delle acque?
“È una delle misure di adattamento al rischio siccità, previsto anche nel ‘Piano di adattamento ai cambiamenti climatici’ approvato lo scorso dicembre 2023. Si tratta di una produzione di risorsa complementare che può essere di aiuto nel momento in cui le risorse idriche primarie scarseggiano. Proprio per questo è importante che dai depuratori esca acqua con un tasso di qualità alto affinché possa essere restituita alle varie attività che ne hanno bisogno, come l’agricoltura o utilizzata per usi ambientali e civili”.

Altri tipi di riuso possibili?
“Si sta affacciando al mercato del riuso il settore industriale. È necessario, però, che l’industria idroesigente sia collocata nei pressi di un depuratore. Alcune amministrazioni comunali stanno utilizzando le acque destinate al riuso per la pulizia e lo spazzamento stradale ma anche per annaffiare giardini o aree verdi. Grazie alla massiccia presenza dei consorzi irrigui di bonifica è sempre stato realizzato, di fatto, un riuso indiretto attraverso lo scarico di acque depurate di qualità nelle acque superficiali utilizzate in agricoltura e controllate dai consorzi di bonifica”.

Quali sono gli elementi che permettono all’acqua depurata di essere considerata di qualità?
“Sono due gli aspetti importanti che possono determinare una bassa qualità dell’acqua depurata. Il primo è l’impatto civile sullo scarico effettuato nelle abitazioni. È necessario evitare di versare gli olii da frittura derivanti dalle attività di cucina perché la loro presenza peggiora la qualità dei sistemi di depurazione e la qualità dei fanghi di depurazione prodotti dagli impianti. A questi, purtroppo, si sommano altri liquidi che, anche maldestramente, possono entrare nello scarico, e quindi nel ciclo, come i solventi o di altri prodotti che utilizziamo in casa. L’altro aspetto, invece, riguarda, il sistema impiantistico che deve essere tecnologicamente adeguato al fine di garantire una qualità dell’acqua non solo conforme ma superiore a quanto previsto dal ‘Testo unico sull’ambiente’, in linea quindi con quanto previsto il regolamento europeo 741/2020 che, in particolare, identifica la qualità delle acque destinate all’agricoltura. Questo ci permette di avere acque in uscita dai depuratori di qualità che deve poi essere monitorata attraverso la filiera di approvvigionamento delle acque in agricoltura, come i canali di bonifica dei consorzi, e consegnate con la stessa qualità agli agricoltori”.

L’utilizzo delle acque reflue può essere una delle armi per contrastare la siccità?
“Sì perché si tratta di una produzione di risorsa complementare che ci permette di non sfruttare risorse idriche di alta qualità da utilizzare nell’approvvigionamento idropotabile o in mancanza di risorse idriche primarie. In una logica di distretto va tenuto conto che l’acqua di depurazione è prodotta 365 giorni l’anno mentre l’agricoltura la richiede solo in determinati periodi dell’anno e quindi è necessario prevedere il suo stoccaggio per renderla disponibile nei momenti di maggior necessità utilizzando gli invasi naturali, artificiali o vasche costruite ad hoc.Aggiungendo infrastrutture e impianti cresce il costo del prodotto finale, dovuto sia alla loro realizzazione e sia alla loro operatività”.

Chi paga?
“Per ciò che riguarda la depurazione, il suo costo è già inserito nelle tariffe attuali. La nuova direttiva europea sulle acque reflue, che dovrà essere recepita anche dall’Italia, prevede l’uso di sistemi sempre più sofisticati per il trattamento delle acque reflue al fine di produrre acque di qualità più elevata. Lo stoccaggio e l’eventuale trasporto sono però un costo che non può gravare esclusivamente sui cittadini e che dovrà essere regolato. Nel caso dell’industria si tratta di un’attività di mercato e sarà regolata dalla contrattazione diretta per l’agricoltura invece, se il settore non sarà in grado di sostenerli, sarà invece necessaria una copertura pubblica dei costi anche grazie agli accordi di programma da parte delle Regioni e degli Enti d’Ambito con i gestori degli impianti di affinamento e quelli dei sistemi di fornitura, per facilitare il riuso attraverso agevolazioni e incentivazioni, nello schema di decreto del presidente della Repubblica che non è ancora stato emanato”.

Vorrei porre l’attenzione sull’alimentazione energetica degli impianti di depurazione. Si tratta di strutture energivore che dovranno tenere conto del traguardo 2030. Cos’è stato fatto, a tal proposito?
“Le nostre imprese sono già da anni impegnate sui temi di decarbonizzazione e di efficienza energetica anche per gli impianti di depurazione. Oltre a sistemi di maggiore efficienza, quali gli automatismi nella gestione dei sistemi areanti di trattamento secondario e altre forme di efficientamento energetico sugli impianti, si sta sperimentando anche la produzione all’interno dell’impianto stesso di energia rinnovabile come quella derivante dal biogas prodotto dalle acque reflue e dai fanghi. È possibile inoltre il recupero dei cascami di calore, di sistemi di mini idroelettrico realizzato attraverso piccoli salti d’acqua e lo sfruttamento di spazi disponibili all’interno dell’impianto per l’installazione di sistemi fotovoltaici. Dal punto di vista morfologico, però, diverse zone del nostro paese non sono adatte a queste installazioni o gli spazi non sono disponibili a causa delle urbanizzazioni realizzate nel tempo nelle adiacenze degli impianti. In quei casi sarà necessario trovare la giusta strada che mantenga la rotta della neutralità energetica, anche acquistando dalla rete una quota di energia verde”.

Qual è il dato nazionale relativo al recupero delle acque?
“L’ultimo dato Istat reso pubblico, che però riguarda il 2020, relativo al volume complessivo delle acque depurate, ossia scaricate dagli impianti, indica 6,7 miliardi di metri cubi. Con la nostra fondazione Utilitatis ed Enea abbiamo provato a stimare quale percentuale coprirebbe l’acqua in uscita dai depuratori se fosse destinata in agricoltura. Sulla base di questa analisi la Sicilia, ad esempio, ha un potenziale di acqua trattata di oltre 420.000 metri cubi/anno andando a coprire, potenzialmente, il 61% del fabbisogno agricolo se si considerano gli impianti superiori ai 2000 abitanti equivalenti. Il dato diventa, invece, il 10% se il campione in esame è quello relativo agli impianti che hanno una capacità maggiore di 10.000 abitanti equivalenti. Indirettamente questo può significare che la Sicilia ha ancora tantissimi piccoli impianti, dai quali non è scontato riuscire a trarre un’acqua di alta qualità idonea per colture edibili, e andrà valutato se la qualità potrebbe essere più idonea quindi a produzioni agricole non alimentari destinate ad esempio alla produzione di sementi o per biomasse”.

Intervista ad Antonio Coniglio, direttore generale della Acoset di Catania

“La nostra rete registra anche il 70% di perdite. Serve una gestione unica per gli investimenti”

Antonio Coniglio, direttore generale di Acoset

Interviene al QdS il dottor Antonio Coniglio, direttore generale di Acoset, consorzio provvede all’alimentazione idrica di venti Comuni della fascia pedemontana etnea.

Direttore, qual è lo stato della rete idrica siciliana?
“La situazione è che abbiamo una parte della rete che ha ricevuto gli ultimi investimenti cinquant’anni fa, una parte che su cui si è investito trent’anni fa e un piccolo segmento che, negli anni ’90 ha ricevuto investimenti. Questo determina che abbiamo una rete idrica in cui registra anche il 70% di perdite, dato allarmante anche a causa dell’attuale allarme siccità sul 40% del territorio regionale. Si tratta di un dato insostenibile perché se non ripariamo le perdite e se non monitoriamo le pressioni, la scarsità della risorsa e il calo delle falde ci porteranno a sistemi di turnazione oppure, ancora peggio ad avere pezzi di territorio senza acqua. È il momento di investire, senza se e senza ma”.

Una fotografia devastante…
“Sì, ma, in un sistema tariffario regolato dal ‘full recovery fund’ ossia che deve coprire costi di gestione investimenti, quando una tariffa è oggettivamente bassa e consente a stento di coprire i costi, vista l’escalation del costo dell’energia, sul fronte degli investimenti negli ultimi vent’anni, ma forse di più, siamo disarmati. Questo è il risultato di una scelta perché avere una tariffa che consente solo la sopravvivenza significa non poter investire in manutenzione o rifacimenti. La vera e grande questione è quella della gestione unica, perché solamente con economie di scala e un sistema organico sull’intero territorio permette di poter realizzare investimenti e, inoltre, non possiamo più disattendere a un adempimento di natura giurisdizionale”.

I progetti siciliani per l’utilizzo dei fondi del Pnrr relativamente all’efficientamento del sistema idrico integrato comunale sembrano non aver non centrato l’obiettivo previsto, visti i 32 progetti bocciati…
“Nel nostro caso, come Acoset., il nostro ufficio tecnico ha lavorato un anno alla progettazione su perdite, riparazioni, controllo delle pressioni e asset management e i progetti sono stati ritenuti ammissibili e, quindi, finanziati per un totale di 19 milioni di euro. Abbiamo ricevuto l’anticipazione e a breve partiranno i lavori ma, se guardiamo alla regione nel suo insieme, dobbiamo muoverci secondo la logica originaria della normativa nazionale sulle acque che prevedeva una Ati unica, un sistema centralizzato all’interno del quale è possibile pianificare in maniera organica. L’Ati di Catania ha fatto tutti i passaggi necessari ma, a oggi, non è ancora stata approvata la convenzione e la gestione unica non è partita. In questo modo si continua a non poter fare investimenti e continuiamo ad essere ‘alla ricerca del tempo perduto’”.

Anche se la rete idrica fosse moderna ed efficiente, però, la situazione dei depuratori e della rete fognaria è drammatica…
“Oltre a quello delle perdite, sull’idrico, l’altro grande tema è proprio quello della depurazione. Siamo soggetti a diverse procedure d’infrazione e non possiamo dimenticare che è tutto il sistema che deve essere, proprio perché integrato, efficiente e oltre all’acquedotto ci devono essere fognature e sistemi di depurazione altrettanto efficienti”.

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