Le coste affogano nel cemento - QdS

Le coste affogano nel cemento

Melania Tanteri

Le coste affogano nel cemento

martedì 24 Agosto 2010

Ambiente. Numerose risorse e scarsa valorizzazione.
Cambiamenti. La realizzazione di strutture di vario genere ha in molti casi alterato in maniera permanente i litorali e, di conseguenza, anche l’ecosistema delle aree interessate.
Strumenti di tutela. Fondamentale l’approvazione e l’attuazione dei Piani paesistici: la Regione ha dato il via libera alle linee guida nel 1999, ma in molte città non ve n’è traccia.

PALERMO – Sempre meno le coste “selvagge”, sempre più gli ecosistemi a rischio, sacrificati al cemento e al profitto. In Sicilia, secondo un recente studio del Wwf che ha analizzato il perimetro dei litorali dell’Isola, risulterebbe che quasi l’80 per cento è occupato da costruzioni, mentre sempre meno sono le porzioni di costa “libere”, ridotte a meno del 10 per cento. 

Dati confermati anche da un’elaborazione fatta attraverso il sistema Sitr (Sistema informativo territoriale regionale) dell’assessorato regionale Territorio e Ambiente, come da tabella in pagina. 
 
Le aree analizzate risultano, infatti, per la maggior parte occupate da edifici, spesso a ridosso delle spiagge o nelle strette vicinanze, a cui vanno aggiunti gli stabilimenti balneari, le aree parcheggio e le discese a mare, nonché le strutture turistiche e i villaggi la cui realizzazione, in moltissimi casi, ha alterato interamente i litorali e, conseguentemente, gli ecosistemi. È il caso del Verdura Golf Resort di Sciacca, la cui realizzazione è costata un intero tratto di costa, la cui fisionomia è stata velocemente rivoluzionata rispetto al passato, o quello in costruzione presso la foce del San Leonardo.
 
Eppure, e sono molti a sottolinearlo, il benessere umano può essere garantito solo se il “consumo del suolo” si mantiene entro certi limiti e se consente di mantenere ecosistemi vitali e funzionali per il pianeta. Il territorio è, infatti, una risorsa esauribile, eppure sembra che nessun legislatore, che sia locale o nazionale, voglia tutelarlo, limitando l’attività edilizia e regolamentando le attività antropiche. 
In Sicilia il fenomeno è particolarmente evidente, tanto che sono numerose le associazioni ambientaliste che chiedono l’intervento della Regione per limitare la cementificazione delle coste e, soprattutto, per tutelare quei pochi scampoli di litorale libero dal rischio cemento e salvaguardare, oltre la natura, anche le radici culturali di un popolo e la memoria storica.
 
“Le coste – spiega Roberto De Pietro, esponente di Legambiente Catania – costituiscono uno degli ecosistemi del Mediterraneo più fragili e più a rischio di ‘estinzione’. Infatti sono ancora considerate, a torto, una risorsa gratuita e totalmente disponibile e l’opinione pubblica e i governanti appaiono scarsamente consapevoli del ruolo che rivestono nel mantenimento degli equilibri ambientali e della biodiversità, nonché della bellezza, dell’interesse scientifico e culturale e dell’identità paesaggistica che esse racchiudono e rappresentano”.
 
Le poche Riserve naturali istituite contrastano la distruzione di interi ecosistemi, ma da sole rappresentano una minima parte della costa siciliana, per di più sacrificata all’edilizia e allo sviluppo economico. 
Eppure, in questo scenario quasi drammatico, esistono ancora chilometri di coste quasi incontaminate che, se protette e preservate, potrebbero rappresentare non solo vere e proprie oasi naturali di conservazione di ecosistemi, ma anche creare un indotto economico, motivo principale della cementificazione selvaggia a cui la Sicilia è sottoposta da decenni. La Penisola della Maddalena o la spiaggia Carratois, nel siracusano, il Chiancone, in provincia di Catania, Punta Bianca o Giallonardo ad Agrigento, sono solo alcuni tratti di costa siciliana non protetti che andrebbero tutelati dalle mire dei costruttori e dei palazzinari che vedono il cemento come unico business e il turismo di massa come l’unico in grado di far girare i soldi.
 
“Per tali tratti – continua De Pietro –  andrebbero attivate concretamente e rapidamente tutte le procedure e gli strumenti necessari per la salvaguardia e la conservazione dei beni naturali che esse racchiudono. L’estensione di tali tratti costieri è minima rispetto a quelli sottoposti ai processi di antropizzazione irreversibili e quindi appare accettabile, anche economicamente, evitare che essi subiscano la stessa sorte di questi ultimi”. Anzi, secondo Legambiente, la distruzione di questi tratti costieri determinerebbe, una perdita economica maggiore di quella connessa alla loro tutela, in quanto si sprecherebbe una risorsa finita, non rinnovabile e ormai sempre più rara. In più si determinerebbe una perdita di biodiversità (anche se risulta difficile attribuire un valore monetario ad essa) e una cancellazione di ambienti naturali e di paesaggio di cui resterebbe, come già avvenuto altrove in passato, solo il ricordo. 
 
Per tali tratti costieri si imporrebbe, quindi, “una politica di salvaguardia – aggiunge De Pietro – che non necessariamente dovrebbe prevedere l’istituzione di aree protette (anche se in alcuni casi, come ad esempio per il tratto costiero orientale della penisola della Maddalena, l’istituzione di una riserva terrestre, associata a quella marina del Plemmirio, sarebbe la soluzione più adeguata), ma si dovrebbero predisporre diversi strumenti di tutela a partire dall’approvazione e attuazione dei piani paesistici”.
Di questi piani però, nonostante la Regione abbia approvato le linee guida nel 1999, o non c’è alcuna traccia, come nel caso di Catania, oppure, come nel caso di Ragusa, vengono contestati dalle lobby e dalla politica con l’accusa di “ingessare” il territorio.

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